La maledizione delle fonti fossili

Il testo che segue è la trascrizione, con qualche aggiustamento, della mia relazione introduttiva al Convegno organizzato dal Circolo Legambiente di Frosinone dal titolo “La maledizione delle fonti fossili – Clima, guerre, tensioni geopolitiche, autoritarismi, violazione dei diritti umani: perché dobbiamo lasciare sottoterra petrolio, gas e carbone”, che si è tenuto a Frosinone il 7 febbraio 2024.

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Nel 2015 aprii un blog, si chiama Stop Fonti Fossili! Quell’anno vide l’inizio della mia personale terza fase di impegno ambientalista: avevo ripreso ad approfondire questioni come il clima, le rinnovabili, i limiti dello sviluppo, e con i miei post sentivo il bisogno di condividere elucubrazioni, angosce e speranze. Nove anni non sono poi molti, e infatti praticamente tutto quello che diremo stasera riguardo al male che un sistema energetico fondato su petrolio, gas e carbone sta apportando al pianeta e alla vita delle persone era già ben noto. Eppure lo scenario è molto cambiato da allora, per molti versi radicalmente cambiato. Nove anni fa il conglomerato di poteri ancorati alla dittatura delle fonti fossili era ben saldo e poteva permettersi di dileggiare i sognatori di un mondo nuovo, un mondo che metta al bando i combustibili che avevano reso possibile la rivoluzione industriale e segnato una svolta di progresso nella storia dell’umanità ma che oggi ci stanno conducendo nel baratro. Alla stragrande maggioranza delle persone le rinnovabili sembravano allora troppo discontinue, inaffidabili, non implementabili alla scala necessaria a scalzare le fossili.

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Ebbene, sembra passato un secolo. L’accelerazione esponenziale di solare, eolico e sistemi di accumulo, lo straordinario progresso tecnologico nei settori delle rinnovabili e dell’economia circolare e il crollo dei prezzi di moduli FV e batterie al litio ha scombinato piani e guastato le feste del vecchio potere fossile. La reazione è stata via via più rabbiosa. Agli ingredienti tradizionali delle attività di lobbying, della corruzione, della commistione tra economia, finanza e politica per resistere alla incombente rivoluzione energetica si sono aggiunte abili campagne di disinformazione condite da fake news; si sono aggiunte consunte suggestioni spacciate per soluzioni salvifiche, come il nucleare – legato non a caso agli stessi potentati anti-rinnovabili e allo stesso mondo militarista e guerrafondaio che abbiamo visto in azione dalla guerra fredda in poi. Sono state fatte passare narrazioni tossiche, come l’idea ingannevole del gas come combustibile ponte verso le rinnovabili, occultando abilmente come il business dei gasdotti sia di ostacolo alla transizione, perché ci lega mani e piedi al consumo di gas per tempi non compatibili con la necessaria rapidità della decarbonizzazione.

E naturalmente, si è fatto ricorso come non mai al greenwashing, il cui campione in Italia è Eni, come stiamo vedendo in questi giorni di monocultura sanremese: senza pudore né vergogna, la partecipata statale colosso delle fossili, da sempre amica di tutti i governi, sta facendo bere agli italiani un elisir velenoso che capovolge la realtà, mostrando nei suoi spot pannelli solari al posto di piattaforme petrolifere e allegre rock band al posto delle raffinerie. Bene ha fatto Legambiente a denunciare l’inganno del cane a sei zampe che continua massicciamente ad investire i suoi enormi profitti su nuovi progetti estrattivi lasciando alle rinnovabili le briciole.

Oggi però la musica è cambiata, e non mi riferisco a quella di Sanremo. La forza dirompente di sole e vento sta nelle economie di scala che stanno rendendo le nuove rinnovabili competitive e attrattive per chiunque, a partire dagli investitori. Ecco perché il comparto oil & gas è all’angolo. Loro lo sanno bene, del resto: fu proprio un ministro saudita del petrolio ad affermare che “l’età della pietra non è finita perché finirono le pietre”, e dunque “non bisogna aspettare che finisca il petrolio per far finire l’età del petrolio”. Big Oil è all’angolo, dicevo, ma non è ancora un pugile suonato, e state certi che prima di abbandonare il campo farà di tutto per non soccombere, magari cercando di convincerci che cambiamento climatico, guerre, autoritarismi, violazione dei diritti umani sono degli inevitabili ma in fin dei conti sopportabili effetti collaterali delle magnifiche sorti e progressive dell’umanità.

E invece continuare ad estrarre petrolio e gas dal sottosuolo è e sarà sempre di più una tragedia collettiva che si ripercuoterà pesantemente sulle generazioni future, come cercheremo di spiegare stasera. Ecco perché la consapevolezza dell’inganno, del gioco sporco in atto a tutti i livelli è essenziale, ed ecco in definitiva il perché di questo convegno.

Malediciamo le fonti fossili anzitutto perché hanno alterato il clima terrestre, e preghiamo perché il danno non sia irreversibile; le malediciamo perché continuano ad alimentare conflitti a bassa, media e alta intensità guarda caso proprio nelle aree del mondo in cui quelle risorse sono concentrate, con ripercussioni sull’intero pianeta; le malediciamo perché non si contano più le storie di devastazioni ambientali, violazioni dei diritti, migrazioni forzate e persino pulizie etniche indotte direttamente o indirettamente dallo sfruttamento di petrolio e gas; le malediciamo perché sono generatrici di instabilità geopolitica, insicurezza, tensioni che allontanano la pace e spingono al riarmo, sottraendo risorse vitali a ciò su cui varrebbe davvero la pena di investire: salute, istruzione, welfare.

E noi qui, nella martoriata Valle del Sacco, così come nella ricca Pianura Padana, abbiamo una ragione in più per maledire le fonti fossili, perché non dobbiamo dimenticare che la CO2 climalterante generata dalla combustione di carburanti fossili (non solo quelli, certo, ci sono anche le biomasse) va sempre a braccetto con polveri sottili, ossidi di azoto e altri microinquinanti che avvelenano l’aria che respiriamo. Se la politica, le amministrazioni locali capissero questo, non si limiterebbero a qualche pannicello caldo per tamponare le emergenze cercando di limitare gli sforamenti dei limiti di legge per la qualità dell’aria, ma guarderebbero oltre lavorando per l’unica vera soluzione al problema, quella che passa per la transizione energetica e l’elettrificazione di trasporti e sistemi di riscaldamento.

Torniamo ora agli scenari internazionali: è necessario farlo perché gli italiani devono uscire da un certo provincialismo che relega la politica estera ai margini del dibattito pubblico. Con l’aggressione russa all’Ucraina di due anni fa abbiamo scoperto di essere sotto costante ricatto dei paesi produttori, dittature, petrocrazie, regimi illiberali e violenti da mettere al bando della comunità internazionale, verso i quali invece siamo spesso costretti a chiudere tutti e due gli occhi per non vedere le violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale da essi commesse e a tapparci le orecchie per non sentire i pianti disperati di profughi o di persone che hanno subito violenze. Perché si sa, gli affari sono affari e la sicurezza energetica nazionale da almeno cinquant’anni è uno dei pilastri della politica estera, molto più dell’isolamento diplomatico dei regimi autoritari. Certo, con Putin è stato diverso: in quel caso le logiche dettate dagli schieramenti internazionali e dalle alleanze ci hanno imposto giustamente di fare a meno del gas di Mosca. Ma molti degli spacciatori alternativi a cui l’Europa si è rivolta per sfuggire alla dipendenza dal gas russo sono retti da regimi non meno autoritari o spietati di quello di Mosca, eppure nessuno ha mosso un dito. Cito ad esempio il caso dell’Azerbaigian, il paese di provenienza del gas che arriva nelle coste pugliesi con il gasdotto TAP: in Italia nessuno sa che lo scorso settembre oltre 100.000 persone dell’enclave armena del Nagorno-Karabakh sono state costrette a fuggire in seguito a un ingiustificato attacco militare azero. A seguito di questa gravissima aggressione l’europarlamento si era espresso con un documento di condanna dichiarando che “l’attuale situazione equivale a una pulizia etnica”. Eppure nulla è successo, e l’Italia continua ad importare una quota rilevante del gas fossile di cui ha bisogno dall’Azerbaijan. Potrei citare altri esempi di amicizie ambigue e interessate dell’Italia con regimi impresentabili: penso all’Algeria, al Qatar e alle altre monarchie assolute del Golfo Persico, che grazie ai petrodollari sono in grado di inondare di denaro tutto ciò che piace alla gente (lo vediamo con il calcio) con l’effetto di narcotizzare ogni spinta al cambiamento.

C’è poi il capitolo insicurezza degli approvvigionamenti provenienti da quella polveriera che è il Medio Oriente, una delle cause principali della volatilità dei mercati e ancora oggi uno dei fattori principali dell’instabilità economica e del rischio sistemico che corriamo affidandoci alle fonti fossili. Il conflitto israelo-palestinese, l’aggressione di Hamas del 7 ottobre e la distruzione sistematica pianificata della Striscia di Gaza messa in atto da Israele che ne è seguita hanno riacceso una miccia mai effettivamente spenta, che minaccia adesso di detonare lasciando sul tappeto solo macerie, in tutti i sensi. Le quotazioni di petrolio e gas sono oggi in balia del rischio di un’escalation del conflitto, e già oggi risentono degli attacchi dei ribelli Houthi nel Mar Rosso alle navi mercantili, particolarmente le petroliere e le metaniere: ad essere messa a repentaglio è l’Europa intera, ma sono i paesi mediterranei quelli più vulnerabili. I cargo di GNL qatarini destinati al terminale Adriatico, ad esempio, sono spesso costretti ad evitare il transito nel Canale di Suez, e questo vuol dire dover scegliere rotte più lunghe e costose, con riflessi inevitabili sui prezzi, o addirittura a dover cancellare le spedizioni. Insomma, la nostra economia e la possibilità per le famiglie di arrivare alla fine del mese continuano a dipendere pesantemente da fattori che come sistema Paese non possiamo controllare.

L’attualità ci porta poi ad affrontare il tema del controverso Piano Mattei per l’Africa, per molti versi ancora indefinito nei contenuti. Secondo le intenzioni del governo, il Piano rappresenterà una piattaforma di cooperazione con i Paesi africani basata su un approccio paritario, non predatorio e non caritatevole, con l’obiettivo di contribuire alla crescita dell’Africa grazie alle proprie risorse attraverso progetti e strategie innovativi. Queste le belle parole. Peccato che, a giudicare da quanto emerso nel corso del summit Italia-Africa del 29 gennaio, di innovativo in termini di strategie energetiche sembra esserci ben poco. Come è stato ben evidenziato dal think tank ECCO Climate, non sono emerse priorità chiare in materia di energia legate agli obiettivi di decarbonizzazione, né una strategia definita su come supportare il continente africano nell’uscita dalle fonti fossili. Anzi, il Piano rischia di generare nuovi partenariati energetici basati proprio sulle fonti fossili. L’Italia come hub del gas, e del gas algerino, in buona sostanza, anziché hub delle rinnovabili. Più in generale, scrive ancora ECCO Climate, “sembra mancare la consapevolezza della centralità della dimensione climatica come parte integrante e non derubricabile delle politiche che l’Italia porta avanti”. Insomma, ancora una volta, lo sfruttamento delle fossili appare l’ingombrante elefante nella stanza che non si riesce ad allontanare.

Ecco dunque l’ennesimo motivo per maledire le fonti fossili. Ma attenzione: gli ambientalisti maledicono le fonti fossili ma non certo i poveri cristi che ne fanno uso per vivere, neanche se fanno parte della schiera dei frenatori della transizione ecologica o addirittura dei negazionisti climatici. Anzi, fatemi dire, noi ambientalisti siamo così buoni da essere felici di sapere che le tasche delle persone, comprese di quelle che non ci amano, tenderanno a non essere più svuotate dalle bollette energetiche e dal caro-benzina, e questo grazie da una parte alla sempre maggiore penetrazione delle rinnovabili, che già oggi fungono da calmiere verso le quotazioni di petrolio e gas, e dall’altra alla rivoluzione della mobilità elettrica. Sembra controintuitivo, ma non lo è affatto. È il mercato, bellezza: al netto delle oscillazioni dovute ad altri fattori, una minor richiesta internazionale di greggio indotta da un parco auto sempre più elettrificato farà inevitabilmente abbassare il prezzo del petrolio, facendo così felici gli amanti del “naftone”, ovvero esattamente coloro che le auto elettriche proprio non le digeriscono. Allo stesso modo, man mano che le pompe di calore alimentate dall’energia eolica sostituiranno le caldaie a gas, le quotazioni del metano alla borsa di Amsterdam (quelle che hanno prodotto lo sconquasso economico che sappiamo nei tragici mesi successivi allo scoppio del conflitto in Ucraina) non potranno che scendere a causa della minore domanda. E questo, badate, sta già succedendo. Per il gas, peraltro, paradosso fra i paradossi, sono anche gli inverni sempre più miti indotti dalla crisi climatica a tenere alti gli stoccaggi e a calmierare i prezzi. Insomma, mi chiedo e vi chiedo: non sarebbe ora che la massa di persone inconsapevolmente prone alle narrazioni di regime e alle fake news che circolano sui social la smettessero di prendersela con gli ambientalisti che spingono per accelerare la transizione verso le energie pulite? Non sarebbe un tantino più giusto che invece ci ringraziassero??

È dunque di tutto questo che parleremo stasera: lo faremo grazie al contributo di quattro relatori il cui bagaglio è fatto di qualità, competenze e passione, che ringrazio di cuore per aver accettato il mio invito talvolta ai limiti dello stalkeraggio. Sarà Marina Testa a presentare i nostri ospiti, ma prima di concludere e dare la parola a Mariagrazia Midulla, Paolo Sellari, Ferdinando Cotugno e Alfio Nicotra, lasciatemi fare una breve postilla sulla questione climatica, che chi mi conosce sa essere il mio chiodo fisso.

Come saprete, il 2023 è stato l’anno più caldo mai registrato, ma a questo primato se ne accompagnano altri meno noti, tutti indicatori di un’accelerazione del riscaldamento globale. L’aumento della temperatura superficiale degli oceani o la contrazione delle calotte glaciali, ad esempio. Dobbiamo preoccuparci? Onestamente, sì. Mentirei se tentassi di dissimulare o minimizzare. Ma il nodo in fondo non è questo, perché chi più chi meno siamo tutti preoccupati per il futuro che ci aspetta: il nodo è convogliare la preoccupazione verso scelte consapevoli, verso un’apertura autentica al cambiamento che vinca le resistenze, verso il contrasto esplicito, dichiarato nei confronti di chi frena o rema in direzione contraria.

E poi, la madre di tutte le domande: possiamo fare qualcosa? Siamo ancora in tempo a fermare l’irreparabile? Anche qui, altrettanto onestamente, ancora una volta: sì. Siamo in tempo, perché il genere umano ha mostrato di poter fare cose straordinarie, impensabili, grazie al suo ingegno e al suo cuore. Siamo in tempo, perché gli strumenti tecnologici li abbiamo già, ed hanno la maturità che serve a velocizzare la trasformazione necessaria. Le fonti pulite di energia non sono solo desiderabili perché non alterano il clima; lo sono per mille altri motivi. Sono decentrate e democratiche, vicine a noi e quindi controllabili, affidabili, amiche, producono reddito per una moltitudine di persone e non per pochi, e una volta ammortizzato l’investimento iniziale (peraltro, sempre più abbordabile), sono gra-tu-i-te! Questa, badate, è una novità assoluta per la storia dell’umanità, di cui ancora non ci rendiamo conto appieno.

Però c’è il fattore tempo, che al punto in cui è la crisi del clima è dirimente. Chi frena, dilaziona, posticipa l’abbandono delle fonti fossili commette un errore non molto diverso da chi nega il cambiamento climatico. A dircelo è una comunità scientifica sempre più attonita e spaventata per quello che sta accadendo al clima terrestre. Quello che si prefigura nei prossimi anni è dunque una competizione agguerrita fra due atleti molto in forma, il clima sempre più caldo e le rinnovabili che corrono. Non sappiamo chi vincerà, ma sappiamo molto bene da che parte tutti noi dobbiamo stare.

MobiliTIAMO la città

Il testo che segue è la trascrizione della mia relazione introduttiva al Convegno-dibattito organizzato dal Circolo Legambiente di Frosinone dal titolo “MobiliTIAMO la città – La sfida della mobilità urbana sostenibile in Europa, in Italia e a Frosinone”, che si è tenuto a Frosinone il 19 settembre 2023.

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L’evento di stasera ha un duplice intento. Il primo è quello di ragionare sui perché la transizione verso una mobilità green è centrale nel contesto attuale in Europa e in Italia. Il secondo nasce dall’esigenza che abbiamo avvertito di confrontarci sulle politiche da attuare sulla mobilità urbana a Frosinone, a partire dalle proposte e dalle iniziative del nostro Circolo degli ultimi anni, alcune di maggior impatto, altre più estemporanee. È quello della mobilità sostenibile un tema difficile, anzi maledettamente complicato se inserito in contesti urbanistici caotici come quello di Frosinone, ma è un tema ineludibile, perché ha un risvolto diretto sulla qualità della vita della gente. Allo stesso tempo però è un tema che si interfaccia e in qualche modo discende da altre questioni incommensurabilmente più grandi. Mi riferisco alla lotta alla crisi climatica e all’imperativo di abbattere l’inquinamento atmosferico.

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Riguardo al clima, c’è un blocco ancora da superare, ed è quello di riuscire a trasmettere l’allarme montante degli scienziati, che sfocia inevitabilmente nell’angoscia e nella disperazione, perché giorno dopo giorno assistiamo a segnali inequivocabili di un’accelerazione del riscaldamento globale con tutto ciò che ne deriva, primi fra tutti la crisi idrica, la minaccia alla sicurezza alimentare e la vulnerabilità dei territori rispetto ad eventi climatici estremi sempre più spaventosi.

Azzerare le emissioni di gas serra è, ogni giorno di più, una missione a cui nessuno può sottrarsi e che nessuno può permettersi di dilazionare. Vi confesso due stati d’animo personali: il primo è che, se non facessi quello che faccio come attivista in questa città, non credo che riuscirei a guardare negli occhi i miei figli senza provare disagio. Il secondo ha a che fare con la mia personale ecoansia: nonostante lo sconforto che mi attanaglia nel registrare il continuo peggioramento dei parametri indicatori della gravità della crisi climatica, provo serenità nel poter dire a me stesso, se le cose dovessero volgere al peggio, di averci provato, come la protagonista di Don’t look up un attimo prima dell’impatto della cometa sulla Terra.

Cosa c’entri la mobilità urbana con il clima è abbastanza noto: da un lato, le città sono responsabili del 70% delle emissioni di gas serra globali; dall’altro, il settore dei trasporti via terra incide per circa un terzo delle emissioni di CO2 totali. Dobbiamo quindi partire da qui e capire la strada per decarbonizzare in fretta i trasporti su strada, a cominciare dalle onnipresenti automobili che come un cancro si stanno mangiando le nostre città. Ad aiutarci su questo sarà Carlo Tritto di Transport & Environment, che ci parlerà della rivoluzione della mobilità elettrica e della sua netta superiorità sulle altre opzioni che ci si ostina a voler prendere in considerazione adducendo a pretesto un principio, quello della neutralità tecnologica, che in questo caso non sta proprio in piedi, e mi riferisco ai biocarburanti, agli e-fuel o all’idrogeno, alternative che almeno per il trasporto leggero (ma non solo) sono state bocciate dalla scienza e dai mercati. Carlo ci spiegherà perché opporsi al divieto di vendita di auto a combustione interna dal 2035 – come sta facendo questo governo – è sbagliato, e promette di condannare il nostro Paese all’irrilevanza nella competizione globale nel settore automotive.

Stiamo assistendo a una assurda campagna anti-auto elettriche condita da una marea di fake news: non è difficile immaginare quali interessi possano averla orchestrata e foraggiata. Il risultato è che oggi le immatricolazioni di auto elettriche in Italia sono meno del 4% contro una media europea del 14%. Questo ostracismo verso quella che è non un’innovazione come tante, ma un vero e proprio game changer in un settore industriale di cruciale importanza, potrà avere conseguenze devastanti per la competitività del sistema Paese e le prime avvisaglie ci sono tutte. Ma le battute di arresto della mobilità sostenibile in Italia non si fermano qui, esse si estendono alla sharing mobility e soprattutto alla ciclabilità e micromobilità, messe a dura prova dalle continue stragi sulle strade a cui assistiamo sgomenti. Fra tagli ai fondi sulle infrastrutture ciclabili e modifiche al codice della strada al limite del punitivo per chi si indirizza verso alternative più ecologiche, questo governo e molte amministrazioni locali stanno spianando la strada ad un generale arretramento sulle politiche in tema di mobilità dolce. Sappiano tutti che gli ambientalisti sono indignati e arrabbiati, e si metteranno di traverso con la passione e l’inventiva che li caratterizza.

E veniamo al secondo dei motivi che rendono urgente ed eticamente non negoziabile una svolta nel modo in cui ci si muove in città: lo smog. Ormai lo sanno anche i sassi: lo smog uccide, lo smog ha un impatto deleterio sulla salute, lo smog provoca malattie cardiovascolari, tumori e danni di lunga durata ai polmoni dei bambini e dei soggetti più fragili. Da 60 a 80 mila morti premature l’anno in Italia, sono cifre da rabbrividire, eppure sembrano lasciare indifferenti i più, o nella migliore delle ipotesi essere accettate come se si trattasse di una piaga biblica da subire con rassegnazione. Su questo tema davvero viene da dire “per fortuna che c’è l’Europa” perché l’Italia, con la sistematica violazione delle direttive UE sulla qualità dell’aria e la condanna da parte della Corte di Giustizia Europea, per decenni ha voltato la testa dall’altra parte. Menomale che l’Europa c’è e mostra di seguire la scienza, come ha fatto la scorsa settimana con l’approvazione da parte del Parlamento Europeo della nuova direttiva sulla qualità dell’aria, che restringe i limiti di accettabilità di una serie di inquinanti. Certo, il voto contrario dei partiti di destra che in Italia sono maggioritari non fa ben sperare, ed è un pessimo segnale per il futuro.

Un bel segnale è invece quello che viene dal basso, dalle centinaia di associazioni, movimenti di base e organizzazioni della società civile che hanno come obiettivo città pulite e una mobilità urbana a zero emissioni. Clean Cities è una coalizione europea di queste realtà, ed è stasera rappresentata da Simone Nuglio che coordina questa campagna per Legambiente. Simone ci racconterà quali strade intraprendere per liberare le nostre città da polveri sottili e ossidi di azoto, e quali ostacoli, politici e mentali, si frappongono sul cammino. Ci parlerà della moltitudine di strumenti che renderebbero realtà quello che è ancora un sogno: le zone a basse e a zero emissioni, le zone 30, le ZTL e le aree pedonali, le strade scolastiche e altro ancora.

Lasciatemi dire, su tutto questo, sulle nostre sacrosante vertenze, siamo stufi di sentirci additare come ambientalisti ideologici. Ma cosa vuol dire? Ma che accusa è? Cosa c’è di ideologico nel chiedere che si ascolti la buona scienza e nell’auspicare un mondo migliore? Perché guardate, vi do una notizia: i cambiamenti che perseguiamo non hanno il fine di instaurare una dittatura ecologista, ma di vivere tutti meglio!

E vivere meglio, badate, non vuol dire solo respirare aria pulita. A supportare questa affermazione sono stavolta le scienze sociali: città con meno macchine e più persone, con meno automobilisti e più pedoni, con meno asfalto e più marciapiedi, con meno parcheggi in centro e più verde, sono anche città in cui la gente è meno sola, meno depressa e meno infelice. Sì, infelice, perché è questo ciò a cui sta portando la monocultura dell’auto: tutti soli nei nostri abitacoli di lamiera, in coda nel traffico, alla perenne ricerca di parcheggi, resi pigri dalla sedentarietà, gonfi di stress e di rancore verso tutto e verso tutti, stiamo perdendo la capacità di relazionarci in maniera empatica e non formale, di scambiare due chiacchiere guardando negli occhi chi si incontra camminando per sentirci meno soli.

A conclusione di questa preliminare disamina vorrei allora dire a tutti coloro ossessionati da ogni minima restrizione alla viabilità (ovviamente quella veicolare), da ogni minima limitazione della sosta, da ogni promiscuità dell’asfalto stradale con altri utenti che non siano le macchine, a tutti coloro che rabbrividiscono all’idea di salire su un mezzo pubblico, e a tutti coloro che su queste basi e solo su queste fanno politica nelle città: abbiate il coraggio di dirlo, che non ve ne importa niente del clima, non ve ne importa niente dell’inquinamento atmosferico, dei bambini con lo sviluppo compromesso dallo smog, della mortalità stradale, e perfino dell’infelicità delle persone! Ditelo a chiare lettere, siate onesti con voi stessi e con gli altri. Non cercate alibi e ammettete che non siete disposti a cambiare, e pur di non farlo preferite vivere in città tristi, squallide, sporche e anonime.

Ma ora veniamo a Frosinone. Una città difficile, si è detto, in cui la mancata programmazione urbanistica e l’edificazione selvaggia degli anni del boom hanno spianato la strada all’uso e all’abuso dell’auto privata e solo di quella, tanto che oggi Frosinone è al primo posto fra i capoluoghi di provincia italiani per tasso di motorizzazione privata. Aver assecondato questo trend è stato un grave errore delle amministrazioni passate, di tutti i colori. La mancanza di visione di chi era al timone della città nei decenni passati ha prodotto i guai del presente: polveri sottili alle stelle, assenza di strade pedonali permanenti, marciapiedi largamente insufficienti per ampiezza, qualità e stato di manutenzione, deficit di percorsi ciclabili adeguati, mancanza di piazze interdette alle auto (anzi per la verità una ce n’è – quella antistante la chiesa della Sacra Famiglia – e infatti c’è chi anacronisticamente propone di eliminarla).

Qualcosa però finalmente si sta muovendo: come sapete l’amministrazione Mastrangeli, raccogliendo gli input del PUMS approvato nella scorsa consiliatura, ha avviato la realizzazione di una serie di iniziative che rappresentano un cambio di passo significativo nella direzione da noi auspicata. Mi riferisco in primo luogo al piano delle piste ciclabili, al BRT e al raddoppio dell’ascensore inclinato. Sarà lo stesso Sindaco Riccardo Mastrangeli stasera a parlarcene. Vorremmo però che il primo cittadino ci dicesse anche cosa c’è dietro alle forti resistenze che sta incontrando persino all’interno della sua maggioranza, e soprattutto che ci rassicurasse sul fatto che il dialogo instaurato con gli onnipresenti frenatori del cambiamento non condurrà ad arretramenti negli indirizzi che si intendono perseguire. Abbiamo bisogno di essere rassicurati, Sindaco, perché francamente la vicenda recente delle ciclabili allo Scalo, con i lavori bloccati a cantiere già avviato, rappresenta qualcosa di più di un banale incidente di percorso, innanzitutto perché evidenzia un grave problema di metodo (mi riferisco ai tempi del dialogo, che ovviamente deve precedere l’approvazione dei progetti e non avvenire a cantieri aperti); e poi perché al netto dei proclami sembra lasciar trasparire una titubanza che non ci si aspetterebbe da un sindaco a solo un anno dal suo insediamento. Il consenso va e viene, Sindaco, ma le somme si tirano fra quattro anni, e l’esperienza ci dice che i cambiamenti hanno bisogno di tempo per essere assimilati. Intendo dire che le resistenze di oggi verranno meno una volta che saranno evidenti i benefici di una città in cui la libertà di movimento tanto invocata è garantita non più da una sola scelta obbligata per tutti (l’auto privata) ma da una pluralità di opzioni che competono fra loro in termini di convenienza (oltre all’auto, la pedonalità, il TPL, la bici, il car sharing, ecc.).

C’è però dell’altro che ci sta a cuore su cui vorremmo delle risposte positive da questa amministrazione: la ZTL nel centro storico, su cui ci siamo mobilitati con il partecipato flashmob del 6 luglio scorso; le misure antismog in previsione della imminente stagione invernale, quella in cui la Valle del Sacco è attanagliata dalle polveri sottili; il sostegno nella richiesta alla Regione Lazio di abbassare a 110 km/h il limite di velocità sull’A1; la costituzione di un tavolo con i comuni limitrofi per concordare azioni concertate contro l’inquinamento; l’estensione temporale dell’isola pedonale su via Aldo Moro, la via più frequentata dagli adolescenti, che specie il sabato si trasforma in un incubo; il rifacimento e l’allargamento dei marciapiedi su alcune strade che ne sono di fatto prive, ad esempio via Tiburtina e più in generale le iniziative da assumere per garantire il diritto alla camminabilità; i nuovi parcheggi allo Scalo, su cui abbiamo espresso di recente i nostri sì e i nostri no argomentati e tutt’altro che ideologici.

Tutti insieme, i nostri desiderata vanno nella direzione di una città più pulita, salutare, vivibile, attrattiva, inclusiva e a misura d’uomo, anzi di bambino. Perché questo sogno si realizzi serve un’amministrazione che lo condivida senza tentennamenti, con capacità di visione e lungimiranza. Ma servono anche, lo sappiamo bene, cittadini consapevoli che si mettano in gioco e mostrino disponibilità a modificare le proprie abitudini. Lo scrittore indiano Amitav Ghosh ha detto che la sfida del cambiamento climatico richiede uno sforzo di immaginazione. E’ uno sforzo collettivo, che implica in una certa misura la necessità di mettere da parte gli interessi personali di corto respiro e piccolo cabotaggio così da favorire gli interessi della collettività di cui facciamo parte, quella di oggi e quella che erediterà il pianeta e le nostre città.

Questo sforzo dovrebbe essere applicato anche nel modo in cui ci muoviamo nei luoghi del nostro vivere. L’automobile non è la nostra protesi, è o dovrebbe essere una delle opzioni. L’immaginazione dovrebbe guidarci nel ripensare i nostri spostamenti quotidiani, prevedendo un ventaglio di opzioni praticabili, anche in combinazione, ad es. auto con ultimo miglio in bici, come faccio solitamente io pur guidando un’auto elettrica, oppure auto fino a parcheggio di scambio poi a piedi, o treno più monopattino, o trasporto pubblico e a piedi. Per far decollare l’immaginazione c’è però bisogno di restringere gli spazi destinati alle auto, limitare la sosta specie a bordo strada, reprimere gli abusi e l’invadenza delle macchine. Vedrete che a quel punto, per la legge dei vasi comunicanti, gli spazi lasciati liberi dalle auto saranno riempiti con altro. Non avverrà il giorno dopo, ma avverrà. Noi non manchiamo occasione per ribadirlo: la strada è di tutti e la saturazione degli spazi pubblici causata dalle auto è una delle cause dell’alienazione che si prova nel vivere in città. La specie umana è resiliente, ma l’assuefazione generata dal vivere circondati dalle auto e dal pericolo costante che esse rappresentano nasconde un disagio magari inconscio destinato a sfociare prima o poi in qualcosa di più grave.

E chiudo: spero che il dibattito che seguirà le tre relazioni principali prima delle conclusioni affidate a Roberto Scacchi possa dare il segnale chiaro che una parte di città, quella che sa guardare al futuro anziché ragionare con logiche novecentesche, che non ha perso la voglia di avvicinare Frosinone all’Europa, di imparare dalle buone pratiche, questa parte di città è viva e vegeta, ha le energie per contrastare i frenatori di professione e vuole continuare ad impegnarsi non per far prevalere un’ideologia ma semplicemente perché ama la propria città.

Per il clima non svoltare a destra

La domanda è legittima: conservare un clima stabile non dovrebbe piacere ai conservatori? Se non vi convince, ve la pongo in altri termini: l’attuazione di quei cambiamenti che, oltre a proteggere il clima, potranno permettere la salvaguardia dei presupposti su cui si regge il sistema capitalista non dovrebbe essere cosa buona e giusta per chi come la destra ha a cuore la libertà dell’iniziativa privata? Insomma, non sta scritto da nessuna parte che la destra italiana ed europea debba sentirsi costretta a dichiarare guerra alle politiche climatiche dell’UE. Eppure, fotografando la situazione odierna, viene da dire che svoltare a destra significa imboccare la strada che ci porta dritti al baratro climatico.

Continua a leggere: Per il clima non svoltare a destra

È sconfortante dover discettare di categorie politiche per molti versi desuete quando sappiamo che la partita vera non è salvare uno schieramento o una visione dell’economia, ma salvare tout court la civilizzazione umana minacciata dal caos climatico. Eppure lo scenario politico che si sta facendo largo da alcuni mesi in Europa (che fortunatamente ha avuto una battuta d’arresto con le recenti elezioni in Spagna) prefigura proprio lo scontro di cui sentiamo meno il bisogno: quello fra chi pensa che il vecchio continente debba alzare il livello dell’ambizione e porsi come il soggetto trainante della transizione ecologica mondiale e chi invece intende tirare bruscamente il freno a mano. L’alleanza fra PPE, PSE e Verdi che ha portato Ursula von der Leyen al vertice della Commissione Europea rischia di frantumarsi insieme al sogno di un’Europa capofila di un Green New Deal planetario in grado almeno di scongiurare gli esiti più nefasti della crisi climatica.

Ma quali sono le tesi della destra in materia di clima e su quali basi poggiano? Qui il discorso diventa scivoloso: in Italia, ad esempio, è al governo una destra che ha bisogno di essere vista come “presentabile” e che non può permettersi di dichiararsi negazionista pena la perdita totale di credibilità nei consessi internazionali. Questa destra, però, è la stessa che continua a lisciare il pelo al negazionismo più becero, quello dei troll che bombardano i social al grido di “ha sempre fatto caldo”; è la stessa che manda in prima linea sui media i professionisti della disinformazione perennemente alla caccia di improbabili esperti anti-IPCC. Questa destra, in definitiva, si nutre del negazionismo e non può farne elettoralmente a meno. Pretendere chiarezza, esigere che venga espressa una condanna forte e chiara verso le posizioni anti-scienza che negano il cambiamento climatico e la sua origine antropica non funzionerà: troppo ambiguo e sfuggente è il ceto politico espressione dell’attuale maggioranza. La qual cosa, peraltro, non stupisce affatto: del resto esso trae linfa vitale dalla mediocrità culturale di un elettorato più impaurito dal cambiamento che da ciò che ci aspetta se quel cambiamento verrà osteggiato.

Ufficialmente, la destra al governo non rigetta gli obiettivi di decarbonizzazione né la prospettiva di un abbandono delle fonti fossili, vuole solo più gradualità nelle tempistiche e minori rigidità nella scelta degli strumenti tecnologici. Potrebbe apparire ragionevole ad un elettore moderato, persino rassicurante rispetto ai rischi di una transizione green troppo rapida. Peccato che anche questa posizione è intrisa di una base anti-scientifica, che all’apparenza non è grave quanto il negazionismo esplicito, ma che è ugualmente deleteria se guardiamo alle conseguenze.

Non prendiamoci in giro, signori gradualisti, i rapporti dell’IPCC parlano chiaro: la finestra temporale per tentare di contenere l’aumento di temperatura a 1,5°C sta per chiudersi. Il momento di agire è ora, e la rapidità richiesta alla transizione verso le rinnovabili e al ripristino degli ecosistemi non è un capriccio di ambientalisti invasati, ma la conseguenza diretta degli scenari elaborati dalla comunità scientifica, i quali indicano chiaramente che una riduzione troppo lenta o ritardata delle emissioni non scongiurerebbe il raggiungimento dei punti di non ritorno climatici oltre i quali ogni sforzo sarà vano. Non c’è gradualità che tenga quando la casa brucia: insistere con la tesi che una transizione a ritmo sostenuto possa destabilizzare il tessuto economico vuol dire non rendersi conto di quanta instabilità sarà patita dai settori produttivi in balia di un clima fuori controllo e soprattutto di quanti e quali conflitti potranno deflagrare in una società in preda all’insicurezza alimentare cronica e sconvolta da eventi meteo estremi sempre più frequenti e devastanti. Peraltro, in uno scenario distopico di escalation della crisi climatica innescato dalle molteplici retroazioni positive di cui vediamo già le avvisaglie, la politica non potrà nemmeno più offrire una prospettiva credibile di successo delle azioni di mitigazione, e rischierebbe di dover arrendersi alla completa disgregazione sociale.

L’approccio soft alla tragedia climatica appare dunque mistificatorio, perché questa non è una crisi come un’altra in cui la dialettica fra moderati e radicali è parte del gioco: stavolta siamo di fronte a una sfida immensamente più spaventosa, dove l’alternativa fra il “si salvi chi può” e il “lottiamo insieme, possiamo farcela” si decide sulla base della coesione sociale che la classe politica saprà incoraggiare e dall’univocità di messaggi che verranno veicolati ai tanti che difettano di strumenti per discernere. Dirò di più, il tema del riscaldamento globale, forse più di ogni altro, dovrebbe scardinare gli automatismi duri a morire di chi bolla i giovani militanti per il clima come pericolosi talebani senza curarsi dell’ecoansia esistenziale che li attanaglia. Allo stesso modo, commette un grave errore la leadership di destra quando etichetta l’ambientalismo come ideologico: piuttosto, è l’occhiolino strizzato agli anti-scienza che suona intriso di un’ideologia fuori dal tempo, che sembra voler anacronisticamente gettare a mare le conquiste ottenute negli ultimi due secoli proprio grazie alla scienza e alle sue applicazioni.

Dunque, attenzione alla destra in doppiopetto, attenzione agli equilibristi de “il cambiamento climatico esiste ma…”, attenzione al moderatismo spicciolo di chi sbandiera equidistanza fra negazionisti e attivisti climatici. Non dobbiamo chiedere a costoro di sposare la causa dell’ambientalismo, ma pretendere che ascoltino gli allarmi a sirene spiegate lanciati da uomini e donne di scienza sempre più terrorizzati dalla messe di segnali che prefigurano un aggravamento della crisi climatica, e agiscano di conseguenza.

Perché l’ultima cosa che possiamo permetterci in un momento come questo è quella di fomentare o anche solo lasciar circolare dubbi sul consenso raggiunto dalla comunità dei ricercatori, che su pochi temi come il clima si trova unita nel chiedere che si passi all’azione senza attendere neanche un minuto di più.

La sfida della mobilità ecologica nelle città

Il testo che segue è la trascrizione del mio intervento al convegno La strada è di tutti organizzato da FIAB Frosinone – Su2Ruote Aps, che si è tenuto a Frosinone il 30 marzo 2023.

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Il titolo del convegno è in sé un manifesto programmatico. Ed è anche il nostro programma.

L’incidentalità stradale nei nostri centri urbani è figlia di politiche sbagliate messe in atto negli anni in cui si andava affermando la motorizzazione di massa. È figlia di scelte amministrative poco lungimiranti che sapevano guardare solo alla crescita economica, ignorando che la qualità della vita è ben altro dall’avere qualche spicciolo di più in tasca. E la crescita richiedeva velocità, e spazio per correre.

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Per un pugno di cent

Anno 2123, da qualche parte sul pianeta Terra, verosimilmente non lontano dal Circolo Polare Artico. Il destino di una comunità di umani si sta per compiere. A decidere della vita o della morte dei suoi membri sarà la data in cui la spaventosa ondata di calore estremo che invade quella porzione di mondo avrà termine. Quelle donne e quegli uomini sanno bene che gran parte delle terre emerse del pianeta sono già da tempo inabitate a causa degli sconvolgimenti climatici dispiegatisi nei precedenti 150 anni, ma non sanno di essere l’ultimo drappello di umani ad ereditare l’incredibile avventura della colonizzazione della Terra operata da Homo sapiens e a poterla tramandare ai loro discendenti.

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Oggi militare, domani solare

Il testo che segue è la trascrizione della mia relazione introduttiva al Convegno organizzato dal Circolo Legambiente di Frosinone dal titolo “Oggi militare, domani solare – energia solare energia di pace”, che si è tenuto a Frosinone il 28 aprile 2022.

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Oggi militare, domani solare… quando è stato diffuso il save the date di questo evento qualcuno ha commentato: domani è tardi. È vero, domani è già tardi. Del resto quando abbiamo presentato alla stampa questa idea, lo scorso settembre, era tutto un rincorrersi di leader mondiali che sulle orme di Greta dicevano “non c’è più tempo”. La sfida immane della crisi climatica sembrava allora che potesse compiere un salto dai blablabla ai fatti.

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Quella caldaia non si (bio)digerisce

Nove grammi. È la quantità di PM10 emessa in un’ora da una caldaia a gasolio da 500 kW che lavora a pieno regime. Poco o tanto? Dipende. Lascio a voi valutare.

Per darvi un’idea, 9 g di PM10 vengono emessi, per esempio, da circa 650 g di legna che arde in un caminetto aperto [1]. In pratica, un’abitazione con caminetto rilascia in atmosfera nei mesi invernali in un giorno grossomodo la stessa quantità di PM10 della caldaia di cui sopra. Con una piccola differenza: che il caminetto riscalda al massimo un’abitazione, neanche tanto grande, mentre la caldaia da 500 kW è tarata per un impianto industriale.

Se proviamo ad allargare lo sguardo, scopriamo che nella Valle del Sacco, dove si svolge la disputa di cui vi dirò più avanti, ci sono diverse migliaia di caminetti non filtrati che fumano ogni santo giorno da novembre a marzo, in barba ad ogni allarme smog che viene lanciato da più di dieci anni a questa parte.

Vi do un altro metro di paragone. Sapete quanta PM10 viene emessa da 4 – diconsi quattro – auto diesel che attraversano tutta la Valle del Sacco da Colleferro a Ceprano? Circa 7,7 grammi. Tanto quanto un solo camion pesante [2]. E, sempre per allargare lo sguardo, sapete quanti mezzi transitano in media sull’autostrada A1 nello stesso tratto in un’ora? Circa 2300 [3], di cui almeno il 40% sono diesel. In pratica, per eguagliare la quantità di PM10 emessa dalle sole vetture diesel che transitano in autostrada dal casello di Colleferro a quello di Ceprano in un’ora dobbiamo mettere in fila più o meno 200 caldaie come quella sotto accusa e farle funzionare a pieno regime per lo stesso tempo.

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Il Sole d’inverno

I detrattori del fotovoltaico, ancora oggi più numerosi di quanto sembri, sottolineano a ogni piè sospinto come l’intermittenza della generazione solare e la ridotta insolazione dei mesi invernali anche alle nostre latitudini renda impensabile fare seriamente affidamento su questa fonte di energia.

Si tratta di una tesi che, adducendo fatti incontestabili, tenta strumentalmente di screditare le posizioni pro-rinnovabili allo scopo di opporre resistenza alla improcrastinabile transizione energetica. Del resto, non c’è nessuno che neghi che il futuro mix elettrico 100% rinnovabile dovrà includere sostanziosi contributi di eolico e idroelettrico, nonché una quantità significativa di accumuli di vario tipo, anche stagionali. Ciò detto, date le peculiarità geografiche e climatiche del territorio nazionale, è ad avviso di molti essenziale mantenere dritta la barra sulla centralità del solare fotovoltaico nel futuro sistema di produzione elettrica italiano.

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Il grande iato

Sapere e accantonare. Apprendere e restare passivi. Relegare il problema negli anfratti dell’io pur avendolo compreso. Rimuovere ad ogni costo ciò a cui non si può credere. Erigere inespugnabili fortini neuronali contro le aggressioni di scomode verità. Aggrapparsi alle menzogne di comodo sparse a piene mani dai frenatori di ogni risma.

Sono innumerevoli, benché non prive di analogie, le modalità con le quali si estrinseca l’immobilismo di una vasta maggioranza delle persone nonostante gli ormai inconfutabili allarmi sull’emergenza climatica planetaria. È tutto noto, ormai, tutto è stato già detto e scritto, ma oggi si deve prendere atto che sapere non basta. La coscienza non è scalfita, resta impermeabile, se non repellente. La rabbia non prorompe, l’angoscia non divampa, i cuori non vibrano, ma appaiono piuttosto anestetizzati, necrotizzati dall’inerzia.

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Il NIMBY ci seppellirà

Ormai mi è chiaro. Cristallino, direi. Atteggiarsi a consapevoli profeti di sventura, limitarsi ad un attivismo meramente divulgativo delle catastrofi assortite a cui stiamo andando incontro, condito magari da un generico appello a una riconversione degli stili di vita, porta applausi e pacche sulle spalle, ma non sposta di una virgola lo status quo. Le stanche giaculatorie con la lista dei tragici errori di un’umanità da troppo tempo affetta dal delirio di onnipotenza non fanno che arenarsi nelle secche di un’ancestrale riluttanza verso il cambiamento. Ciò che fa la differenza in termini di impatto del ragionamento e di consenso sono i NO e i SI che diciamo.

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