La storia è vecchia: il calo delle quotazioni del greggio non è mai accompagnato da una diminuzione di pari entità del prezzo dei prodotti petroliferi, mentre quando il prezzo del petrolio sale l’aumento dei prezzi alla pompa è repentino e consistente. Negli ultimi mesi questo fenomeno si è però accentuato oltre ogni limite, tanto che a fronte di un calo – depurato delle oscillazioni del cambio euro/dollaro – del 6,3% delle quotazioni del Brent rispetto all’inizio dell’anno, il prezzo della benzina è addirittura aumentato del 4%. Vale allora la pena di capire cosa c’è dietro a questo assurdo divario, non foss’altro perché, esaminando i fatti nudi e crudi, una sola cosa appare certa: né i consumatori né l’ambiente ci stanno guadagnando.
I petrolieri, come un disco rotto, mettono il vorace fisco italiano sul banco degli imputati, sottolineando che tra IVA ed accise più di 1 euro per ogni litro di “verde” vanno allo Stato. Si può discutere se la tassazione sui prodotti petroliferi sia eccessiva oppure no. Il mio parere, che so essere opposto a quello della vulgata corrente, è che se si considerano le molte esternalità ambientali negative dei combustibili fossili, prima fra tutte l’immane costo indotto dai cambiamenti climatici, l’attuale prezzo dei carburanti non può essere ritenuto elevato (si veda in proposito un precedente post di questo blog). Ad ogni modo, non avendo intenzione di fare il gioco di Big Oil puntando il dito contro il fisco allo scopo di distogliere l’attenzione dalle responsabilità dell’industria petrolifera, mi limiterò a far sommessamente notare che nella struttura del prezzo dei carburanti le accise (le quali, si noti bene, non sono aumentate nel 2015, così come non è aumentata l’IVA) incidono in misura fissa rispetto all’unità di prodotto, per cui la sola tassazione determina un’attenuazione delle variazioni dei prezzi del prodotto finito ma non può certo spiegare l’attuale divaricazione fra calo dei prezzi della materia prima e aumento dei prezzi alla pompa.
E’ necessario allora indagare sul costo industriale del prodotto finito al netto delle tasse e sul margine operativo delle industrie petrolifere. Secondo i petrolieri, il costo industriale aumenta perché aumentano i costi di raffinazione. Vale la pena di analizzare più a fondo questa affermazione: è ben noto infatti che i giacimenti petroliferi, dopo aver raggiunto il picco di produzione, danno luogo ad un greggio di qualità inferiore che richiede maggiori costi di raffinazione. Peraltro questo problema si somma a quello più grave legato alla fase di estrazione del petrolio, che diventa sempre più difficile ed onerosa man mano che il giacimento si avvicina all’esaurimento, tanto che la questione del picco del petrolio (o picco di Hubbert) è giustamente ritenuta di fondamentale importanza nelle previsioni della disponibilità di energia fossile nei decenni a venire (vedi p.es. qui). E tuttavia, se consideriamo che il petrolio raffinato in Italia è un mix proveniente da svariati giacimenti, presumibilmente non tutti in fase di declino, e soprattutto che il depauperamento quali-quantitativo del greggio estratto avviene in tempi relativamente lunghi, e non certo in pochi mesi, la giustificazione avanzata dai petrolieri appare davvero risibile. Essa per di più non sembra trovare effettivi riscontri neanche nei documenti ufficiali prodotti dalle stesse aziende: anzi, il comunicato stampa dell’ENI del 30 luglio, che illustra i risultati del 2° trimestre 2015, parla di un contenimento significativo dei costi produttivi e di “forti progressi” nel riassetto degli impianti di raffinazione.
Si deve poi aggiungere che le industrie petrolifere in Italia sono storicamente in grado di operare pressoché indisturbate in una logica di cartello, traendo vantaggio dalla peculiare struttura del mercato che vede in gran parte le stesse compagnie operare direttamente lungo tutta la filiera fino alla distribuzione nei punti vendita (le cosiddette pompe bianche, cioè i distributori low-cost che si riforniscono autonomamente nel mercato extra-rete, sono solo il 12% del totale).
E allora, è forse venuto il momento di provare a dare una diversa lettura dei fatti. I petrolieri nell’ultimo anno hanno visto ridurre in modo considerevole i loro profitti a causa del crollo del prezzo del barile; le loro aziende sono inoltre costantemente alle prese con gli ingenti investimenti necessari per le nuove esplorazioni e per gli avvii dei nuovi giacimenti. Pertanto, è verosimile pensare che in questa situazione abbiano deciso di autofinanziarsi allargando artificiosamente il differenziale fra la quotazione della materia prima e il costo del prodotto finito (principalmente benzina e gasolio). Del resto lo stesso Descalzi, Amministratore Delegato di ENI, ha ammesso nello stesso comunicato del 30 luglio che la principale sfida del settore oil & gas è oggi quella dell’autofinanziamento degli investimenti. Anche perché la raccolta di fondi dal sistema bancario o da operazioni di collocamento azionario è sempre più problematica, da un lato a causa del rischio crescente associato alla scoperta di nuovi giacimenti (che si rivelano molto spesso enormemente difficili da sfruttare o di dimensioni così ridotte da non giustificare le risorse investite) e dall’altro per l’opposizione fortunatamente sempre più vigorosa dell’opinione pubblica verso l’ulteriore sviluppo delle fonti fossili.
Questo piano non può dunque passare sotto silenzio: se vogliamo affamare i colossi petroliferi impedendo loro di portare a termine progetti devastanti come le trivellazioni nell’Artico o nei mari italiani, dobbiamo denunciare con forza il meccanismo perverso che fa sì che, alla faccia del tanto decantato libero mercato, tutti noi diventiamo nostro malgrado finanziatori di questi scempi ogni volta che facciamo il pieno. L’Antitrust, se intende mostrarsi davvero autorità indipendente dal potere politico, dovrebbe intervenire subito e smascherare questo gioco sporco. Come il petrolio.