Andavo a cento all’ora

A margine dello scandalo Volskwagen e di ciò che ne è seguito vorrei provare a riassumere, senza entrare in inutili tecnicismi, quelle che mi sono sembrate le principali lezioni che si possono trarre da quella vicenda. A mio avviso, esse dovrebbero altresì costituire i punti fermi da cui partire per indirizzare la transizione verso una nuova mobilità realmente sostenibile. Continua a leggere

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Con quel calor mediorientale

L’estate 2015, almeno quella astronomica, ci sta lasciando. E’ stata una stagione caldissima, ma probabilmente la rimpiangeremo. A causa del riscaldamento globale, i record di alta temperatura raggiunti in molte parti del mondo sono sempre più numerosi ed hanno una durata sempre più breve. Pertanto non dirò, come farebbero molti giornalisti mainstream, che questa estate sarà ricordata come la più calda in assoluto, perché quasi certamente il primato di quest’anno lascerà il posto ad altri analoghi record negli anni a venire, forse già nel 2016. Oltre all’Italia, l’elenco dei luoghi dell’emisfero boreale investiti da ondate di calore che non possono più essere banalmente catalogate come ‘anomale’ o ‘eccezionali’ è lunghissimo: Germania, Polonia (qui in alcuni casi le temperature sono state 14°C più alte della media), Corea, Giappone, e tanti altri paesi hanno toccato con mano una realtà climatica che sarà semplicemente la nuova normalità. Non fra cento anni (se fosse così, in molti direbbero ‘chissenefrega’), ma domani. Una normalità talvolta insopportabile.

Fra le aree più colpite dal caldo estremo dei mesi scorsi, vorrei soffermarmi sul Medio Oriente e dintorni. Egitto, Siria, Libano, Iraq, Iran, Pakistan: paesi certo che convivono da sempre con il caldo. E tuttavia, quando il caldo oltrepassa il confine sottile, diverso per ciascun individuo, che separa il tollerabile dall’intollerabile, il disagio dalla malattia, e talvolta, soprattutto negli anziani, la vita dalla morte, allora la cosa si fa più seria. Terribilmente più seria. Specie quando l’afa asfissiante si unisce alla miseria, alla penuria di acqua e magari alla guerra. Continua a leggere

Il cielo sopra Parigi

Chissà se qualcuno fra i delegati alla COP21 proverà una vaga sensazione di disagio sapendo di contribuire personalmente, con le consistenti emissioni di CO2 prodotte dal volo aereo che li porterà a Parigi, ad aggravare il riscaldamento globale che la conferenza a cui parteciperanno dovrà cercare di mitigare? Può darsi, o forse gli eventuali cattivi pensieri saranno scacciati via dall’ambizione di sentirsi investiti da una missione, quella di contribuire ad un accordo internazionale che potrebbe rappresentare l’ultima spiaggia per salvare il genere umano dall’apocalisse climatica. Chissà.

Quello che è certo è che il contributo del trasporto aereo alle emissioni totali di CO2 non è trascurabile, essendo responsabile, secondo le stime dell’IPCC, per il 3,5% del cambiamento climatico antropogenico totale. Vi sembra poco? Io penso di no, sia perché non possiamo permetterci di adottare un approccio blando ad un problema così drammatico tralasciando superficialmente l’impatto di questa o quella sorgente di gas serra o esentando alcuni settori dell’economia dal fornire il proprio contributo, sia perché, a differenza di altre fonti inquinanti, non si intravede all’orizzonte una sorgente di energia carbon free e rinnovabile in grado di rimpiazzare il cherosene impiegato per far volare gli aerei. L’energia solare e le altre fonti pulite potranno certamente rivoluzionare il modo in cui produciamo elettricità, le batterie al litio potranno far muovere le auto elettriche e ridisegnare la mobilità di superficie, ma solo una fonte di energia concentrata e a basso costo come il petrolio è in grado di vincere la gravità in modo efficiente e sufficientemente sicuro facendo alzare in cielo un ammasso di ferro di alcune decine di tonnellate fino a migliaia di metri dal suolo. Ecco perché tutti gli osservatori sono concordi nel ritenere che in assenza di misure di contrasto quel 3,5% sia destinato a crescere .

Diciamocelo francamente: la conquista dei cieli, così fortemente e tenacemente perseguita dall’uomo da tempi immemori, rappresenta qualcosa a cui non sarà affatto facile abdicare, anche perché lo sviluppo tumultuoso del trasporto aereo civile e commerciale degli ultimi decenni ha fornito una spinta decisiva alla globalizzazione dei mercati, alla quale il sistema economico-finanziario dominante non potrà mai rinunciare se non vuole rinnegare se stesso. Del resto, la folle frenesia da cui è animata un’economia che sembra non conoscere terze vie fra l’ossessione della crescita e l’implosione violenta va di pari passo con la necessità di accorciare le distanze fra i luoghi della produzione e i luoghi del consumo, e niente come un volo di linea intercontinentale o un cargo aereo può dare l’illusione di vivere in un mondo in cui chi acquista è vicino a chi vende e tutto è a portata di mano.

La spinta verso un ulteriore sviluppo del trasporto aereo è fortissima, specie in Cina, India e nelle economie emergenti. L’ultimo faraonico Piano Quinquennale sbandierato con orgoglio al mondo dalle autorità di Pechino prevede la messa in esercizio di quasi un centinaio di nuovi aeroporti, migliaia di nuovi aerei di linea, jet e quant’altro occorre per fare della Cina la prima potenza mondiale anche nel campo dell’aviazione. Non stupisce allora che proprio la Cina e l’India siano stati fino ad ora fra i più fieri avversari di ogni tentativo della comunità internazionale, per quanto timido, diretto ad introdurre strumenti per contenere le emissioni di gas serra nel settore del trasporto aereo. Stiamo parlando peraltro di un settore che più di ogni altro, proprio in virtù del servizio che offre – collegare nazioni e continenti – necessita di una regolamentazione internazionale efficace basata sull’adesione di tutte le potenze mondiali, pena una pesante distorsione della concorrenza fra compagnie di diversi Paesi.

Ma poi, quale accordo efficace si potrebbe raggiungere per limitare in modo tangibile le emissioni dei voli aerei? L’UE ha introdotto da tempo misure basate sullo scambio di quote di emissioni (tristemente note come “diritto di inquinare”) in accordo con il protocollo di Kyoto: peccato che questo strumento si sia rivelato oltremodo fallace oltre che fonte di gravi ingiustizie, come denunciato fra gli altri da papa Francesco nell’enciclica Laudato Si’ [§ 171]. Resterebbe la mitica carbon tax, quella vera però, non simbolica, effettivamente commisurata alle emissioni prodotte e non annacquata da esenzioni a pioggia, la sola realmente in grado di promuovere la riconversione dell’economia: se si riuscisse ad introdurre una tassazione sui voli aerei vincolante in tutto il mondo sarebbe un vero miracolo, se solo si pensa che i combustibili usati dagli aerei di linea, a differenza dei carburanti per autotrazione, non sono assoggettati alle accise, smascherando così la vera logica di una scelta, assolutamente devastante per l’ambiente, che è quella di incentivare il trasporto aereo.

Se dunque, date le premesse, sul lato dell’iniziativa politica internazionale non c’è da stare allegri, le cose vanno ancora peggio se si rivolge lo sguardo alle azioni volontarie intraprese dalle compagnie aeree per contenere le emissioni: solitamente esse non hanno saputo far meglio che mettere in atto delle squallide operazioni di greenwashing, talvolta con l’ausilio di organizzazioni sedicenti ambientaliste, ad esempio invitando i clienti a compensare la CO2 prodotta dal proprio volo con contributi volontari diretti a non meglio specificate attività di protezione del clima, oppure magnificando in modo ingannevole le potenzialità dei biocombustibili come sostituti del cherosene, come se tutto ciò che contiene il prefisso bio sia di per sé amico dell’ambiente…

Dobbiamo dunque affidarci solo alla speranza di una più diffusa consapevolezza e alla rinuncia volontaria di molti a volare? Temo che neanche questo basterà. Lasciatemi però almeno sognare che un improvviso ciclone tropicale “benigno” o un’inattesa ondata di calore africano su Parigi il prossimo dicembre riesca a dare ai delegati alla Conferenza ONU sul clima quella sferzata di coraggio (paradossalmente dettata dalla paura) che potrà davvero cambiare le cose e restituire un pianeta vivibile ai nostri eredi.

Divorzio alla norvegese

La decisione bipartisan presa a giugno dal Parlamento norvegese di vendere gli investimenti sul carbone del proprio fondo sovrano (Government Pension Fund Global, GPFG) merita qualche riflessione. Prima di tutto per le dimensioni del fondo, il secondo al mondo fra i fondi pensionistici con i suoi 837 miliardi di euro di partecipazioni. Poi, perché non si tratta affatto di un’operazione poco più che simbolica come molte altre dello stesso tenore realizzate fino ad ora (ad esempio, quelle di alcune università statunitensi e britanniche), bensì del più consistente disinvestimento dalle fonti fossili deliberato a tutt’oggi: dalle varie stime circolate il valore complessivo delle partecipazioni che saranno cedute dovrebbe essere compreso in un range che va da 4 a 8 miliardi di euro, impattando su circa un centinaio di aziende in tutto il mondo. E soprattutto, l’operazione lancia un segnale politico chiaro alla finanza globale e ai leader mondiali, costituendo un precedente in grado di spianare la strada ad altri analoghi disinvestimenti da parte di istituzioni e fondi privati, con conseguenze potenzialmente dirompenti. Infatti, dopo soli tre mesi la Norvegia non è più sola: proprio in questi giorni è stata annunciata un’analoga decisione da parte dello Stato della California riguardante i due principali fondi pensionistici dei dipendenti pubblici.

Nel motivare la decisione, il Parlamento di Oslo ha coniugato principi ispiratori etici ed economici, sostenendo da un lato l’immoralità di investire in aziende che con le loro attività contribuiscono pesantemente al riscaldamento globale, e dall’altro mettendo in evidenza l’elevato rischio finanziario a medio-lungo termine associato ad investimenti su un combustibile che è destinato ad essere soppiantato da fonti energetiche più pulite e con minore impatto sul clima.

Certo, suona strano e in fondo anche un po’ ipocrita che il denaro dei norvegesi ottenuto in gran parte dai ricavi del petrolio estratto nel Mare del Nord venga sottratto solo alle aziende che fanno profitti sul carbone salvaguardando le altre fonti fossili. Ma dopotutto è anche contraddittorio che proprio uno dei Paesi all’avanguardia nell’impiego delle energie rinnovabili abbia costruito la propria ricchezza trivellando i propri mari estraendone petrolio e gas. Del resto, le contraddizioni nel settore energetico sembrano essere la regola, come vedremo anche più avanti.

Vale la pena di analizzare con maggior dettaglio le caratteristiche del disinvestimento deciso da Oslo. Anzitutto, esso riguarda non solo le aziende del settore minerario che estraggono carbone, ma anche le utilities, cioè le aziende che lo utilizzano nelle proprie centrali per produrre energia. Il che cambia non poco l’impatto della decisione norvegese, che suona decisamente come un ostracismo a tutto tondo verso questa fonte fossile, indubbiamente la più dannosa per la salute, l’ambiente e il clima. Va poi evidenziata l’intenzione delle autorità norvegesi di condurre in porto l’intera operazione con la massima trasparenza: alla Norges Bank, il gestore del fondo che entro il 1° gennaio 2016 dovrà implementare le raccomandazioni del Parlamento, è stato chiesto di rendere pubblica la decisione finale con la lista delle aziende le cui partecipazioni saranno dismesse. E’ auspicabile che in questo modo la “black list” che scaturirà dall’istruttoria potrà più facilmente essere oggetto di ulteriori disinvestimenti da parte di altri soggetti che vorranno seguire la Norvegia nella sua decisione. I criteri su cui si baserà l’elaborazione della lista sono già noti: verranno ceduti gli assets di quelle aziende che, da sole o tramite loro società controllate, basano più del 30% dei loro ricavi sul carbone o generano più del 30% dell’energia dal carbone. Verranno inoltre svolte valutazioni prospettiche che tengano conto di programmi aziendali già in essere in grado di condurre a variazioni, in più o in meno, delle suddette percentuali. In altri termini, un’azienda che è al di sotto della soglia del 30% ma ha in portafoglio investimenti significativi sul carbone potrebbe non essere “salvata”.

E qui si inserisce un interessante giallo che ci riguarda da vicino. Nell’elenco delle aziende nel mirino diffuso inizialmente da alcuni organi di stampa (si veda p.es. qui) c’era anche Enel, di cui il GPFG detiene ben 600 milioni di euro di quote azionarie, pari all’1,7% del valore dell’azienda. In effetti Enel gestisce molte centrali termoelettriche a carbone sia in Italia che all’estero ed è responsabile di una fetta consistente delle emissioni nazionali di CO2 complessive. Il Sole 24 Ore si è però affrettato a precisare, forse per tranquillizzare i tanti investitori italiani, che la quota di energia elettrica proveniente dal carbone prodotta da Enel è pari al 29%, quindi inferiore anche se di un soffio alla soglia decisa da Oslo. Ma la questione resta apertissima: secondo uno studio condotto dal gruppo ambientalista tedesco Urgewald, applicando i criteri adottati, nonostante l’attuale 29% Enel dovrebbe rientrare comunque fra le aziende oggetto di disinvestimento in ragione di non meglio precisati piani di espansione legati al carbone.

Effettivamente non è chiaro quali siano i dati su cui si è basata Urgewald per giungere a una tale conclusione. Se da un lato è vero che il carbone (irresponsabilmente considerato da Enel una fonte energetica abbondante e competitiva) continua ad essere strategico per l’azienda, dall’altro è innegabile che, a partire dal recente abbandono del contestatissimo progetto di riconversione a carbone della centrale di Porto Tolle, il colosso energetico italiano sembra aver deciso di guardare alle rinnovabili (eolico in primis) meno timidamente di quanto abbia fatto finora, ampliando i suoi investimenti in questo settore. Sarà interessante dunque monitorare gli sviluppi della vicenda sino alle decisione finale delle autorità norvegesi. Se Enel dovesse essere inclusa nella black list, si tratterebbe a mio avviso di un fatto rilevante per la politica energetica nazionale, che dovrebbe dare una spinta di rilievo all’espansione delle fonti rinnovabili e condurre il governo ad anticipare significativamente il decommissioning delle centrali a carbone attualmente operanti, a partire da quella di Brindisi che con i suoi 2640 MW installati è una delle più grandi e inquinanti d’Europa.

Tornando al cuore della questione, credo che il disinvestimento deciso dai norvegesi, sebbene costituisca solo un piccolo passo verso il necessario addio ai combustibili fossili, è in grado di innescare un sensibile smottamento del fragile castello finanziario che tiene in piedi un settore industriale troppo spesso incapace di immaginare un futuro che non abbia, appunto, il colore del carbone.

Aiuto, il cane a sei zampe emette gas!

Diciamolo subito forte e chiaro, a scanso di equivoci: la fortunosa scoperta Eni annunciata domenica di un nuovo mega-giacimento di gas al largo delle coste egiziane NON E’ una buona notizia. Ogni giacimento di combustibili fossili in più che viene scoperto rappresenta una speranza in meno di riuscire nell’impresa già di per sé improba di contenere efficacemente il riscaldamento globale. Perché una volta estratto, quel gas verrà bruciato e pomperà in atmosfera altri miliardi di tonnellate di CO2. E l’atmosfera, purtroppo, è indifferente alla provenienza della CO2 o alle capacità tecniche dell’azienda che ha permesso di produrla.

Gli annunci trionfalistici dell’AD Descalzi e del suo azionista di riferimento Renzi sono davvero indigeribili, perché il più grande errore che si può fare oggi nel commentare una scoperta come questa è proprio quello di inquadrarla esclusivamente in una ristretta ottica italocentrica, blaterando sui vantaggi che essa apporterebbe al Paese. I vantaggi immediati, in realtà, li avranno solo gli speculatori di borsa e gli azionisti Eni: il titolo è infatti ieri schizzato in alto, complice il tono furbamente altisonante del comunicato Eni riguardo alla asserita eccezionalità della scoperta. Per quanto riguarda i benefici a breve-medio termine, li avrà forse l’economia egiziana, sempreché non si scateni nel frattempo una guerra nel Mediterraneo per il controllo delle risorse. Di vantaggi reali a lungo termine per chi dopo di noi erediterà la Terra, francamente non ne vedo. A meno che…

A meno che si provi a ragionare in termini di contenimento del danno globale e soprattutto di sostituzione di future emissioni a maggior tenore climalterante con quelle che scaturiranno dallo sfruttamento del nuovo giacimento, in una prospettiva comunque orientata ad accelerare la transizione verso le fonti rinnovabili.

Indubbiamente, la scelta strategica e comunicativa di Eni di puntare sempre di più sul gas naturale rispetto al petrolio è astuta e intelligente dal punto di vista imprenditoriale e di immagine. Come è noto, a parità di energia prodotta il gas emette meno CO2 rispetto al petrolio; il gas, inoltre, ha una facciata di fonte energetica pulita che il petrolio non ha. Dall’uomo della strada il metano è visto come un combustibile non inquinante, perché le sue emissioni non danno cattivo odore e non apportano particolato, sfuggendo quindi alla comune percezione dell’inquinamento come qualcosa di afferrabile dai nostri sensi. E’ ad ogni modo innegabile che, mettendo petrolio e gas sul piatto della bilancia, il secondo presenta una serie di vantaggi, come è altresì vero che, a certe condizioni, il gas può giocare un ruolo nella transizione verso un’economia decarbonizzata.

Diciamo allora che, se venissero confermate le imponenti dimensioni delle riserve contenute nel giacimento, per poter considerare positivamente questa scoperta occorrerebbe fare in modo che, grazie a questo gas, altre riserve di idrocarburi più inquinanti possano rimanere sotto terra, così che il bilancio complessivo viri significativamente verso una consistente riduzione delle emissioni di gas serra. In assenza di un’autorità mondiale in grado di regolare l’attività estrattiva, questo obiettivo dovrebbe essere realizzato mediante l’adozione di adeguate strategie energetiche da parte dei paesi utilizzatori. Ad esempio, ipotizzando che una parte significativa del gas estratto venga destinata al mercato italiano (cosa tutt’altro che certa, data l’inesistenza di gasdotti che collegano l’Egitto con la sponda nord del Mediterraneo), il nostro governo dovrebbe ripensare immediatamente la sua politica energetica in accordo a chiare linee guida, che proverei a sintetizzare così: 1) immediato stop ai controversi progetti estrattivi in corso di autorizzazione nei mari italiani e in Basilicata; 2) chiusura delle centrali elettriche a carbone ancora operanti o loro riconversione a gas; 3) uso della leva fiscale per incentivare l’impiego del metano per autotrazione in luogo di benzina e gasolio; 4) agevolazioni per l’installazione di impianti di cogenerazione a gas. Il tutto, ovviamente, accompagnato da un forte impulso all’efficienza energetica e alla diffusione delle fonti rinnovabili nell’ambito della ridefinizione di target per le emissioni di gas serra di gran lunga più ambiziosi degli attuali.

Ma non basta. L’Italia e l’Egitto hanno il dovere di obbligare l’Eni a stringenti misure di sicurezza in grado di evitare incidenti (queste installazioni sono ad elevato rischio di esplosioni), nonché ad una rigorosa e verificabile azione di minimizzazione delle fuoriuscite di metano (che come noto è esso stesso un potentissimo gas serra) durante le fasi di esplorazione e messa in produzione del giacimento, pena il possibile azzeramento del vantaggio del gas rispetto a carbone e petrolio in termini di emissioni climalteranti complessive.

Ho esagerato con i se e i ma? E’ probabile. Anzi, ho sicuramente esagerato se guardiamo agli interlocutori che dovrebbero tradurre tutti i se e i ma in politiche virtuose e lungimiranti e ad un intero sistema politico-economico-finanziario che va in tutt’altra direzione rispetto a quanto sarebbe necessario. E allora, forse è il caso di ribadirlo: la scoperta del nuovo giacimento in Egitto NON E’ una buona notizia!