Il Cosmo, i suoi Gemelli ed io

Gli occhi sbarrati nel cuore di una notte settembrina. L’incipit stampato nella mente. Il buio cosmico della camera da letto ribolle della spiritualità che ha plasmato i miei anni giovanili, senza la quale non sarei quello che sono. Un Dio troppo umano, un po’ filosofo in erba e un po’ scienziato pasticcione, nella Notte dei Tempi imbastisce un esperimento, dubitando forse persino di sé stesso. Due pianeti allo specchio, uguali ma diversi, scaraventati dal destino, o dal caso, o da coscienti volontà, verso due esiti opposti.

Nasce così I Gemelli del Cosmo. Come un sogno che non vuole saperne di dileguarsi al mattino, ma anzi ti strattona e si impone subito come un libro non ancora scritto, un libro che doveva essere scritto. Da allora, per sei mesi, ha occupato i fine settimana e i dopocena sul divano, come ingombrante architettura della mia esistenza parallela, quella dove l’apparente calma dell’oggi si tuffa in un futuro tutto da decifrare eppure in qualche modo già pennellato dall’incontro fra letteratura e scienza.

Pian piano l’idea prende forma e cristallizza in narrazione. Quando nascono Yosh e Laylah, i due protagonisti, è un po’ come se rinascessero i miei due figli, trapiantati da una psiche inquieta in un pianeta ‘altro’ che possa custodirli dalle retroazioni negative degli insulti inflitti alla Terra dalla mia generazione.

Due cose mi sono state subito chiare: doveva esserci un passato e un futuro, il primo ricostruito come farebbe un archeologo che si riproponga di riesumare l’intera storia dell’universo, e il secondo segnato da un confondente sfasamento spazio-temporale. E poi la Terra, identica a sé stessa nella Storia già scritta, fotografata nell’attualità del presente mentre proietta le sue lugubri ombre sul di là da venire, verosimile nel futuro (prossimo o remoto, poco importa) marchiato a fuoco dal fuoco del cambiamento climatico.

Di contraltare al mondo come potrà essere, ecco la Serra, il mondo che avremmo voluto che fosse, regno delle beltà perdute, Eden preservato dalla polluzione per deliberata scelta dei suoi abitanti. C’è una casella vuota nella tavola periodica serrestre, ed è un vuoto pesante, perché priva le genti dell’opulenza criminalmente sottratta ai posteri. Ma lo splendore dell’oro che ammalia e stordisce, mai visto sulla Serra, è rimpiazzato, moltiplicato per infinito, dalla luce delle nobili virtù di cui rifulgono i suoi custodi.

È improprio definire I Gemelli del Cosmo una science fiction. Non è quello che volevo scrivere, non ne sarei stato capace. La fantascienza è stata poco più che uno strumento narrativo per far avvicinare due mondi che desideravano parlarsi, confidarsi, interrogarsi reciprocamente su ciò che è stato e ciò che poteva essere. Terra e Serra dovevano ciascuno immedesimarsi nell’ucronia dell’altro, questa estasiata, quella inorridita.

Se la Terra è il pianeta che conosciamo, ci sarebbe molto da dire sulla Serra e sui serrestri. Regno dell’utopia certo, ma non solo. Una civiltà che mutua i nomi dei mesi dal calendario della Rivoluzione Francese è per sua natura dirompente, ma non verso il suo passato (ché non si avverte il bisogno di rivoluzioni se si cammina con passo cadenzato e si tiene alto il vessillo dell’altruismo), quanto rispetto al modo consueto con cui noi abbiamo imparato a interagire con i nostri simili, con il regno animale e con Madre Natura nella sua fragile interezza. I serrestri anelano i gemelli lontani, ma sono in qualche modo essi stessi gemelli nella condivisa esaltazione dell’armonia e nel ripudio delle divisioni. Ancora, la Serra è il paradiso delle “Y”, dell’alterità esotica e fascinosa, almeno per noi italiani che solo da poco abbiamo familiarizzato con questa stramba consonante aliena che suona come una vocale.

Ma soprattutto, come sottolineato dal Prof. Marcello Carlino nella sua pregevole Prefazione, la Serra è un pianeta-donna. Poteva forse essere altrimenti, in un mondo che rifugge la sopraffazione come la peste? Sicuramente no, specie dopo la venuta di Yesua, gemella del Cristo di questo angolo della Via Lattea, carismatica protagonista dell’evangelo sconosciuto ai terrestri.

Il Cosmo, fluido etereo in cui tutto scorre, assurge a vero palcoscenico delle vicende narrate, e si rivela essere l’impalpabile liquido amniotico che nutre i sogni dei due giovani eroi. La sua incommensurabilità sgomenta, estendendosi oltre i confini di tutto ciò che è nato dal Big Bang, fino a far intravedere altri universi retti da leggi fisiche sconosciute. Eppure, il prodigio dell’Amore incarnato nella vita intelligente spicca e primeggia anche in cotanta immensità, fino a che, sul momento di estinguersi in uno dei suoi due nidi perduti nello spazio, sprigiona il più inesprimibile, il più assoluto dei dolori.

Ma, come accade a ogni romanzo che voglia essere letto, non è il dolore a scrivere l’epilogo della storia; spetta dunque al lettore scoprire il doppio finale del libro, quello canonico, che si addice a una fiaba, o se preferite a un moderno feuilleton, e quello postumo, inopinatamente rivelato al narratore da un Ulisse viaggiante nel tempo.

Mi piaceva pensare, mentre il mio sogno settembrino coagulava e si faceva libro, che in fondo la storia dei Gemelli del Cosmo potrebbe persino essere vera, che una Serra come quella che ho descritto, che ci ama e ci cerca come il cieco cerca la luce, possa esistere davvero in qualche meandro del creato, o magari proprio a duecento anni luce dalla Terra. Quest’idea ha aleggiato per un po’ nella mia fantasia finendo con lo spegnersi pian piano, come accade con le suggestioni troppo fragili e incorporee. Finché, pochi mesi fa, quando il manoscritto era già pronto per essere impaginato, lo sguardo cade su un trafiletto che mi fa sobbalzare sulla sedia: “Ecco la stella gemella del Sole, si trova a 184 anni luce da noi”!

Lo stupore per quella incredibile coincidenza ha lasciato subito il posto ad una speranza inedita, dai contorni netti come una certezza: non possiamo non avere dei Gemelli nel Cosmo, perché non possiamo non avere diritto ad una seconda possibilità.

5 pensieri su “Il Cosmo, i suoi Gemelli ed io

  1. Che cosa ti occorre Homo
    che muti la tua avidità ardente
    finalmente per la prima volta
    in fuoco domato e soddisfatto
    che mai incenerirà un mondo
    solo per intiepidirsi i piedi
    è troppo piccola la Terra o grande
    scarsa di qualcosa o di che sovrabbondante
    ormai inetta ad ospitarti
    perchè di rango sei cresciuto forse
    salata insopportabilmente la sua acqua
    o dolce in modo nauseante
    ne vuoi un’altra forse
    e come vorresti fosse fatta
    con un’aria più eterea o più greve
    con notti estensibili a piacere
    e parimenti inclinabile a comanto
    per variarne le stagioni
    assecondando umore storto
    anche tu lo sai da sempre
    intorno a un cerchio uguali
    ve ne stanno soltanto sei
    la diagonale di due quinti e un unghia
    del quadrato il lato sopravanza
    e nessun Ente fino a un mezzo
    potrebbe mai allungarla
    viaggia la luce troppo lenta
    o veloce per i tuoi passi incerti
    dove vuoi andare tanto per non stare fermo
    se ti occorre un altro luogo
    non ce n’è uno solo
    ma posso dartene illimitatamente
    io so come si fabbrica lo spazio
    e come si avvia e si ferma il tempo
    e materializzarvi dentro
    ogni forma d’energia
    dimmi se lo sai che cosa vuoi
    ma spiegami perchè dove ti trovi
    è diventato un posto così indecente
    altrimenti per te
    non credo possa più fare nulla.

    Un saluto

    Marco Sclarandis

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  2. Versi per oggi ed il domani:

    Dobbiamo andarcene da questa culla splendida
    ditecelo voi che splendete nel profondo buio
    noi siamo urne delle vostre ceneri
    specchi che di luce dispersa in scialo immane
    fanno vendemmie e mietiture distillando senso
    gocce a fatica tratte da oceani d’assurdo
    perché siamo giunti a oltrepassare il varco
    a scuotere equilibrio terrestre millenario

    ci aspetta un predisposto asilo altrove
    ma dove che il suo indirizzo è sempre ignoto
    voi ci vedete dalle vostre astrali balaustre
    o siamo meno che particelle perse su pulviscolo
    siete voi che ci avete concepiti pazzi
    tranne qualche savio per aumentare scontro
    noi lo sappiamo che siete implacabili e violente
    date la vita con nòcciolo mortale dentro
    illudete i mortali che vi sia esistenza eterna
    credete forse che ignoriamo i vostri funerali
    i gorghi irreversibili in cui precipitate

    chi siete stelle che di polveri fabbricate esseri
    come mai ci attirare a rivedervi tornati da odissee
    almeno fateci incontrare qualcuno sia a noi simile
    un segno se non altro da abissali lontananze
    dimostrateci che siete capaci a rimediare
    che qui su questo infimo pianeta detto Terra
    quando sembra tutto sia perduto
    è giunto invece il tempo della gemma
    e della sua gloriosa primavera.

    Un saluto,

    Marco sclarandis

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