Da “Il piede e l’orma” eBook n. 11 ‘ragione/s-ragione’, Pellegrini Editore, luglio 2018-giugno 2019. Per gentile concessione dell’Editore e dell’amico Alfonso Cardamone.
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Nell’antica Grecia, la culla per antonomasia della democrazia occidentale, c’era un luogo particolarissimo dove, per dirla con lo storico Georges Minois, autore del saggio Histoire de l’avenir. Des prophètes à la prospective, “il futuro irrompe nel presente per dettargli le sue decisioni”.
Quel luogo era Delfi, dimora sacra dell’oracolo di Apollo, meta dei viaggi di moltitudini di sacerdoti, diplomatici e membri delle istituzioni delle città greche per i quali il responso oracolare, da semplice guida che era in origine, finì in qualche modo col divenire il fondamento delle decisioni politiche che venivano adottate.
La reputazione dell’oracolo, naturalmente, scaturiva dal convincimento che i suoi verdetti fossero una diretta emanazione del volere degli dei. La natura religiosa dei riti divinatori che si svolgevano a Delfi non è però sufficiente a spiegare la fortuna di pratiche che si protrassero per più di un millennio. Un tale successo doveva necessariamente fondarsi sulla verosimiglianza e/o attendibilità dei vaticini rilasciati ai richiedenti il consulto. Del resto, se si pensa alla mole di informazioni preziose a cui potevano attingere coloro che, dietro le quinte, supportavano le profetesse incaricate di emettere i responsi (la crescente notorietà condusse Delfi a diventare un crocevia di primaria importanza nel Mediterraneo, in cui transitavano personalità influenti provenienti da ogni dove), non stupirà che le profezie rivelate dall’oracolo risultassero spesso strabilianti per le loro capacità predittive. Lo stesso Minois, su queste basi, si spinge a sostenere che Delfi costituisce “un caso unico di futurocrazia”.
Ma lasciamoci alle spalle gli oracoli e veniamo agli strumenti decisionali dell’oggi, ad una realtà nella quale la democrazia nelle sue varie declinazioni è ancora venerata dalla retorica prevalente come la leva generatrice del migliore dei mondi possibili, adducendo a supporto di questa tesi la risibile motivazione che nessuno è stato finora in grado di proporre ed attuare una forma di governo più valida che possa rimpiazzarla. Naturalmente, sarebbe ingeneroso mettere in discussione il ruolo chiave che storicamente l’avvento delle moderne democrazie ha avuto nel determinare il progresso materiale e civile che ci ha condotti fin qui. E tuttavia, bisogna essere ciechi o in malafede per non vedere le crepe vistose che minano alle fondamenta i sistemi democratici di tutto il mondo. All’influenza devastante esercitata dal denaro sulla volontà popolare liberamente espressa (si pensi al potere delle lobbies, o alla piaga del voto di scambio) si sono aggiunti di recente fenomeni inquietanti che stanno portando la crisi delle democrazie occidentali alle estreme conseguenze.
Solo per citarne alcuni: l’abilità dei poteri forti di manipolare subdolamente il consenso (avvalendosi persino della pirateria informatica) ha raggiunto livelli inimmaginabili solo pochi anni fa; il predominio soverchiante dell’immagine sulla parola e gli slogan banalizzanti che tracimano dai social media rendono sempre più arduo l’esercizio delle capacità di discernimento e il paziente approfondimento di problemi inestricabilmente complessi; la disinformazione galoppante, l’invasione di fake news da cui siamo bombardati stordisce anche i meno sprovveduti finendo col livellare verità e menzogne; le leggende e i falsi miti costruiti e propagandati ad arte (si pensi alle fandonie sui vaccini o al negazionismo dell’impatto umano sul clima) finiscono agli occhi di un’opinione pubblica frastornata con l’acquisire pari dignità delle evidenze scientifiche di segno opposto. Queste ed altre dinamiche concorrono ad una intollerabile distorsione dei meccanismi attraverso i quali si forma il consenso, lasciando emergere per giunta un drammatico impoverimento degli strumenti di analisi critica a disposizione dei singoli. A tutto ciò devono aggiungersi le degenerazioni dei processi democratici causate dal calo della partecipazione alla vita politica e il crescendo rossiniano di aspettative disattese e odi sociali diffusi, che configurano un’incapacità ormai patologica della politica – soprattutto a livello degli Stati nazionali – nel dare risposte alle inquietudini delle masse.
Ma gli scricchiolii sinistri dei sistemi cosiddetti democratici così ben addomesticati dal capitalismo imperante non sono solo il frutto avvelenato del predominio della finanza sulla politica, della pervasività delle tecnologie digitali avanzate e del degrado della convivenza civile. Essi sono esacerbati fino al punto di rottura da meccanismi decisionali ottusamente schiacciati sull’oggi, da scale di priorità che invariabilmente lasciano trasparire la malattia incurabile da cui è afflitta oggi la politica: il cortotermismo. Più i problemi sul tappeto richiedono strategie di lungo periodo, pianificazione pluriennale, paziente concertazione, più i governi si dimostrano incapaci di affrontarli.
La vetta dell’impotenza si colloca sui grandi temi dell’ambiente globale: nessuna delle minacce che stanno pian piano facendo affondare la scialuppa Terra – cambiamento climatico, crollo della biodiversità, sovrappopolazione, inquinamento dilagante, depauperamento delle risorse naturali, perdita di suoli coltivabili, giusto per citare i più rilevanti – sembra oggi poter essere affrontata adeguatamente dalla politica, peraltro in un contesto in cui le autorità sovranazionali stanno perdendo il loro peso specifico a favore degli egoismi dei vecchi stati-nazione.
Grattando sotto la superficie, si scopre che la tendenza a privilegiare le azioni politiche in grado di produrre ritorni a breve termine non deriva solo dalla durata limitata dei mandati delle cariche elettive, ma è in qualche modo la risultante sinergica del convergere di stagnazione economica secolare e superamento dei limiti fisici dello sviluppo. Si tratta in entrambi i casi di dinamiche di portata epocale che le classi dirigenti si ostinano a negare, che concorrono in modo spesso occulto a vanificare gli stimoli espansivi all’economia, ivi compreso il massiccio ricorso al debito pubblico e al deficit di bilancio, a cui sempre più si affidano governi in affanno e politici alla canna del gas. Insoddisfazione diffusa, abnormi disuguaglianze sociali e rabbia montante sono gli inevitabili corollari di aspettative di benessere frustrate.
Sembra dunque non esserci più spazio per politiche di lungo respiro: l’attenzione al futuro che poteva contraddistinguere uno statista illuminato in epoche non lontane di vacche grasse in cui bastava un refolo di mano pubblica per far aumentare il PIL (perché al resto pensava il mercato), sta ora diventando merce rara, lusso che una classe politica pressata da cittadini impoveriti e depressi non può più permettersi. Il dramma è che questa tendenza si sta manifestando proprio ora che i capitali, le energie e le risorse residue dovrebbero essere convogliati con la massima urgenza verso la salvaguardia degli ecosistemi del pianeta e del benessere delle generazioni che verranno.
Ma, ahimè, i non nati non votano e non hanno voce in capitolo nelle democrazie malate che ci governano. Chi dovrebbe rappresentarli, vale a dire un elettorato informato e consapevole, è tenuto in ostaggio dalle sirene della crescita illimitata, postulato irrinunciabile del mainstream economicista a dispetto di ogni evidenza di segno contrario. Ma se un sistema politico non è per sua natura in grado di tutelare l’integrità dei sistemi biofisici dai quali dipende la stessa sopravvivenza dei nostri discendenti, vuol dire che ha fallito miseramente la più basilare delle missioni, e dovrebbe dunque lasciare il campo a qualcos’altro. Per questo occorre andare oltre la democrazia, o almeno quella che conosciamo oggi; per questo occorre nutrire l’ambizione di sperimentare forme di governo inedite nelle quali la preoccupazione verso il futuro giochi un ruolo centrale nelle decisioni da prendere. Dovremmo insomma in qualche modo ripensare in modo creativo a Delfi e alla futurocrazia che la animava, inventare modalità nuove che obblighino i decisori a lasciarsi guidare in ogni singola scelta odierna dalla stella polare della valutazione del suo impatto futuro, camminando sullo stretto crinale che separa la demagogia del ‘tutto a tutti’ dall’autoritarismo oscurantista.
In ciò, peraltro, siamo decisamente avvantaggiati rispetto agli antichi greci, non dovendo scommettere sull’azzardo di vaticini frutto di riti pagani ma potendoci in loro luogo avvalere delle previsioni attendibili della scienza moderna. La quale, va ricordato, non nutre soverchi dubbi su quale sia la destinazione della strada sciagurata che abbiamo democraticamente intrapreso, incardinata in una strenua difesa dello status quo il cui sbocco non può che essere lo schianto della civilizzazione umana contro il peggiore degli esiti possibili.
Come uscire, dunque, da questa trappola infernale? Come vincolare le scelte collettive ad una autentica sostenibilità senza scivolare in un regime dispotico? Non vi sono, va da sé, risposte preconfezionate; possiamo solo auspicare di vedere all’opera una nuova generazione di intellettuali, costituzionalisti, politologi che con l’inventiva che sempre caratterizza le rivoluzioni sappia individuare gli strumenti più idonei a mettere in pratica il principio dell’equità intergenerazionale, sino ad ora enunciato solo a parole da politici cialtroni e incompetenti.
La posta in gioco è troppo alta e il tempo a disposizione troppo breve per poter confidare che la democrazia corregga spontaneamente sé stessa. Come nell’antica Delfi, il futuro irromperà nel presente, anzi lo sta già facendo, e in maniera sempre più terrificante, in special modo con l’intensificarsi delle manifestazioni di un cambiamento climatico catastrofico. Come un oracolo, il futuro a suo modo, attingendo alla ragione, ci sta suggerendo le risposte, quelle necessarie ad evitare l’apocalisse. Sta a noi tradurle in fatti tangibili.