Ogni fiume ha la sua pena. La schiuma biancastra che nelle ultime settimane ha invaso il fiume Sacco per decine di chilometri del suo corso ha portato la mia terra, la Ciociaria, alla ribalta dei media nazionali, sollevando un’ondata di sdegno e di proteste che ha pochi precedenti nell’ambito delle mobilitazioni ambientaliste locali. Su più piccola scala, nel corso di una delle mie periodiche perlustrazioni delle sponde del fiume Cosa, uno degli affluenti del Sacco, ho potuto constatare personalmente per l’ennesima volta la valanga di rifiuti solidi, per lo più di natura plastica e tessile, portati dall’ultima ondata di piena, depositati lì dove la vegetazione riparia ha generosamente opposto resistenza arrestando il loro deflusso verso il mar Tirreno. In entrambi i casi, i fiumi vengono degradati a cloache, si trasformano in ricettacoli di materia indesiderata, ostile, scomoda, di cui criminali senza scrupoli o diversamente encefalizzati non esitano a disfarsi.
Liquidi o solidi, civili o industriali, tossici o inerti, gli scarti della bulimia produttivista vomitati da un’umanità impazzita cercano uno sbocco qualunque per scomparire dalla nostra vista, ma non sempre ne sono capaci. Se non possono volatilizzarsi come accade per i reflui gassosi, o diluirsi nell’immensità del mare, o essere seppelliti illegalmente, essi sono lì, trasudano disgusto o ripugnanza, e spesso sono presagio di morte. La natura sfigurata dovrebbe essere risparmiata dall’essere mostrata ai bambini e ai puri di spirito, sbattuta in prima pagina; si richiederebbe pudore, come si conviene ad un individuo deforme, ma non possiamo permettercelo. Dobbiamo confidare piuttosto sulla scossa che può scaturire dalla rabbia e dall’indignazione provocata dallo shock di certe immagini. Perché nella civiltà che esalta l’apparire e dileggia la fatica del conoscere, ciò che si vede è, almeno finché si vede, mentre ciò che non si vede semplicemente non esiste.
A ben vedere, è proprio questo il dramma: la pubblica riprovazione suscitata dalle manifestazioni visibili dell’onda di rifiuti che sta sommergendo il pianeta non riesce a dilagare come dovrebbe, e soprattutto non è in grado di trarre le conseguenze ultime di un fenomeno intimamente connaturato al sistema economico da cui dipendiamo tutti. Eppure dovrebbero essere ormai evidenti a chiunque i drammi che si stanno consumando grazie ai miliardi di tonnellate di sottoprodotti, per lo più invisibili, sputati dalla tirannia del consumismo, o se preferite dall’idolatria del PIL. A partire dalla CO2, scarto finale per eccellenza di quasi tutti i processi che producono ricchezza, miccia micidiale di cambiamenti climatici devastanti. Ma poi c’è tutto i resto. Dai rifiuti tossici interrati alle terre dei fuochi, dai percolati delle discariche alle polveri sottili, dal glifosato ai pesticidi che avvelenano le falde, dalle microplastiche all’eternit, dai miasmi delle raffinerie a quelli delle acciaierie, tutto ormai attenta alla nostra salute, mentre l’impuro conquista vittorioso gli ultimi baluardi di wilderness. Aria, acqua e terra, ossia gli elementi primordiali della vita, sono stati corrotti a tal punto che per difenderci dagli insulti da cui siamo accerchiati veniamo indotti a rintanarci all’interno di bolle asettiche che rendono le nostre esistenze ancora più artificiali, sempre più distanti dalle sorgenti della vita, sempre più fittiziamente ‘altro’ dalla natura, così che, per paradosso, ci scopriamo incapaci di scorgerne i molteplici sintomi di una crescente sofferenza che non promette nulla di buono. Quando poi, nonostante le strenue difese frapposte, gli scudi protettivi cedono e l’organismo inerme di colui la cui unica colpa è quella di vivere in aree appestate dai veleni viene aggredito dalle ingiurie cancerose di una chimica sconsiderata, siamo nostro malgrado e con dolore costretti a fare ricorso ad altra chimica, questa volta somministrandola volontariamente nei fluidi corporei a dosi massicce, nella speranza che sia in grado di sconfiggere il male e allontanare la morte.
Più passa il tempo, più i tentativi di ripulire ciò che abbiamo sporcato risultano vani, o troppo costosi, o tecnologicamente improponibili, quando non addirittura controproducenti. Basti pensare alle bonifiche dei troppi siti italiani contaminati: nonostante gli ingenti fondi stanziati, i risultati sono risibili, come certificato dalla Commissione Parlamentare d’inchiesta sui rifiuti. Vuoi per gli ostacoli frapposti dalla burocrazia, vuoi per le infiltrazioni criminali negli appalti, vuoi per la complessità intrinseca delle opere, la frazione di territori bonificati è esigua, e molto spesso i lavori non sono mai iniziati o si sono arrestati già alla fase di progettazione. Eppure, non possiamo rassegnarci a convivere con un suolo che trasuda tossine, e dunque la mobilitazione del popolo inquinato non deve cessare, ma anzi rafforzarsi e mettere radici nei territori, conferendo alla rivendicazione del diritto alla salubrità la priorità che merita.
Ma se per i disastri passati non c’è alternativa alla rimozione dei veleni accumulati, per scongiurare ulteriori ferite inferte a territori sconquassati la battaglia deve intraprendere un salto di qualità: pretendere il rigoroso ripristino della legalità, vigilare e pressare le istituzioni affinché chi inquina paghi è fondamentale, ma non è sufficiente. Non possiamo più accontentarci di una pennellata di verde su politiche novecentesche incentrate sulla produzione di merci destinate a trasformarsi in rifiuto, ma dobbiamo costringere piuttosto i decisori nazionali e locali ad imboccare la strada della prevenzione. Perché non c’è soluzione migliore a un problema che evitare che nasca; non c’è disinquinamento più efficace del non inquinare affatto. È sconcertante dover ribadire simili ovvietà, ma lo è ancor di più dover combattere contro la logica imperante del ‘tutto fa PIL’, contro il chiodo fisso di una classe politica mediocre e ottusa alla perenne ricerca del business, dove la prosperità è vista come la somma algebrica dei profitti di chi inquina con quelli di chi depura o fa finta di farlo, dei redditi di chi produce e consuma con quelli di chi smaltisce o lo lascia credere, omettendo di ricordare che nulla si distrugge ma tutto si trasforma. Con la non trascurabile differenza che i primi generalmente arricchiscono pochi privilegiati protetti dall’establishment e i secondi impoveriscono la collettività, mentre tutti insieme, colpevolmente incapaci di chiudere il cerchio come natura insegna, mettiamo a repentaglio le esistenze future di chi non ha voce, a partire dai non nati.
L’inquietante blob della schiuma che deborda dal letto del Sacco già privo di vita acquatica è come la punta di un iceberg di scorie passate e presenti lasciate accumulare da una dissennata rincorsa al guadagno facile e al benessere ad ogni costo. Ciò che si cela sotto il pelo dell’acqua è un immenso mostro malefico abile nell’occultarsi, rovescio della medaglia di una crescita economica ingannevole inseguita costi quel che costi, valanga mefitica che ci prende alle spalle e ci ingloba poco a poco, rifiuto che trabocca e non si fa più rifiutare.
(la foto di copertina è di Matteo Di Pasquasio)