C’è una scena drammatica del celebre film Rapa Nui che è rimasta impressa nella mia memoria: è il momento in cui, nonostante la strenua resistenza dell’unico isolano che aveva intuito le conseguenze di quel gesto, viene abbattuto l’ultimo albero presente sull’isola. Mi sono sempre chiesto come fu possibile per le élites dei diversi clan che regnavano sull’Isola di Pasqua non rendersi conto che il disboscamento totale e definitivo dell’isola avrebbe segnato il collasso ecologico e lo stesso destino di una popolazione priva di vie di fuga. Al tempo stesso, pensando all’insegnamento recato da quella vicenda, ho sempre sperato che la civiltà occidentale, apparentemente più evoluta di quella che eresse i Moai, possa evitare lo stesso triste epilogo affidandosi alla scienza e alle ben più robuste capacità previsionali da questa fornite anziché a primitivi riti tribali.
Ma ora una serie di fatti di cronaca di queste settimane mi inducono a dubitare seriamente che quella speranza sia fondata. Prendiamo la vicenda della crisi idrica romana: confesso che quando il Governatore del Lazio Zingaretti ha disposto il blocco dei prelievi dal Lago di Bracciano e l’Acea di rimando ha programmato la turnazione dell’erogazione dell’acqua, ho fantasticato che una tale grave, inedita situazione avesse potuto far ridestare l’intelligenza sopita di tanti romani portati a credere che nessuna forza della natura possa mai impedire che l’acqua potabile sgorghi dai rubinetti delle loro case. Credo che gli inevitabili disagi apportati agli abitanti della Capitale da un razionamento dell’acqua avrebbero potuto far nascere una consapevolezza nuova sugli sconquassi che, qui ed ora e non in un imprecisato futuro, sono portati in dote dal riscaldamento globale. E forse si sarebbe poco alla volta fatto strada quel senso del limite e quella propensione alla sobrietà che l’ossessione della crescita a tutti i costi ha resettato dalla coscienza della gente.
Naturalmente mi sbagliavo. Ciò che è seguito a quegli annunci sono state le consuete squallide scaramucce fra enti locali di diverso colore politico dirette a scaricare la responsabilità del paventato razionamento dell’acqua sull’altra parte. Abbiamo inoltre assistito ad una sfacciata levata di scudi del gestore del servizio idrico: opponendosi a brutto muso ai provvedimenti restrittivi della Regione, Acea ha disvelato l’arroganza propria di una S.p.A. che, senza vergognarsene, ricorda a tutti di essere guidata non dal raziocinio di chi è chiamato a gestire un bene comune prezioso come l’acqua ma esclusivamente dall’obiettivo della massimizzazione dei dividendi che deve garantire ai suoi azionisti pubblici e privati. Con buona pace dell’esito del referendum sull’acqua pubblica del 2011.
A loro modo, gli scontri politici scaturiti dai bassi istinti elettorali possono essere paragonati, mutatis mutandis, alle cruente battaglie fra le tribù rivali che, sfociando fino al cannibalismo, accelerarono la fine di Rapa Nui. Ma la decisione dei giorni scorsi di soprassedere al razionamento e di proseguire le captazioni dal Lago di Bracciano fa pensare che c’è dell’altro che accomuna la tragica situazione che dovettero vivere gli abitanti di quell’isola confinata nella remota immensità dell’Oceano Pacifico e l’attuale crisi romana dove si sommano in modo sinergico gli effetti di siccità, persistenti temperature sahariane, incendi e degrado diffuso. L’unico sconfitto delle moderne guerre fra i moderni clan è infatti stato, almeno per ora, il Lago di Bracciano, il cui ecosistema è stato di fatto sacrificato sull’altare del Progresso, che è indisponibile a negoziare gli stili di vita dei cittadini e non può dunque accettare che la penuria di acqua faccia serpeggiare l’idea che i cambiamenti climatici in atto richiedano un radicale cambio di mentalità ed un’inversione di rotta della politica. Così come l’impensabile è stato possibile per l’Isola di Pasqua, i cui abitanti decretarono il loro suicidio collettivo abbattendo quell’ultimo albero, allo stesso modo e secondo la stessa assurda logica i romani in stragrande maggioranza hanno dimostrato di essere pronti a prelevare fino all’ultima goccia d’acqua da un lago vulcanico senza immissari che ha già perso 2 kmq di superficie, fregandosene platealmente degli insostituibili servizi ecologici da esso forniti.
In definitiva, ciò a cui stiamo assistendo è il triste spettacolo di una classe politica che anziché attuare misure di lungo respiro in grado di fronteggiare una penuria cronica e non transitoria, risponde alla devastante crisi climatica in atto con provvedimenti ispirati al motto “adda passà ‘a nuttata” i quali non fanno altro che aggravare il degrado degli ecosistemi, che a sua volta non è nient’altro che un’altra delle crisi globali causata dalla dissennata corsa all’oro innescata dai combustibili fossili.
Raschiare il fondo del cratere del lago anziché preservarne il suo prezioso contenuto non sembra una strategia molto lungimirante per una civiltà avanzata che dopo aver messo piede sulla Luna ha in programma la colonizzazione di Marte. Ma tant’è, evidentemente il delirio di onnipotenza di molti di noi porta a confidare sul miraggio che il Pianeta Rosso possa rivelarsi per il genere umano quella via di fuga che gli abitanti di Rapa Nui non hanno avuto.
Mi sono convinto in questi ultimi anni che tutte e ripeto tutte le modifiche che noi esseri umani apportiamo ad una natura selvatica, sono dannose.
Dovremmo vivere adattandoci alla natura.
Non modificarla.
Per questa ragione, credo che qualunque e ripeto qualunque acquedotto sia una violenza alla natura, e che sia un male.
Se vogliamo acqua, dobbiamo berla direttamente dal lago, in prima persona.
Non dobbiamo effettuare prelievi.
E neppure dobbiamo scavare pozzi più profondi dei tre metri.
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Così la natura insegna.
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Pur condividendo il post, vorrei segnalare che molto probabilmente la fine della civiltà che ha prodotto i Moai non è quella che viene riportata nello stesso, per altri versi validissimo, Collasso di Jared Diamond e da tutti per comodità usata come esempio di comportamento suicida di una comunità che ha sovrasfruttato il proprio ambiente.
Esistono altre ipotesi sul declino della civiltà dei Moai, ma in sostanza questo rimane avvolto dal mistero. La trasposizione romanzata del pessimo (dal punto di vista storico) film Rapa Nui, dove si mescolano eventi avvenuti in secoli diversi, non può esser citata come esempio.
Invece, parlando della vicenda della crisi idrica del lago di Bracciano, è interessante notare una similitudine con l’isola di Pasqua. La fonte di acqua dolce dell’isola è costituita da un acquitrino che occupa il fondo circolare del cratere del vulcano Ranuo Kau, che sovrasta il villaggio Hanga Roa (l’unico dell’isola, con aeroporto). Un altro bacino di acqua dolce minore si ha sul fondo del cratere del vulcano Maunga Terevaka. L’isola ha una superficie di 180 Km quadrati ed una popolazione di circa 3000 individui, cui va sommato qualche centinaio di turisti, che però mediamente si fermano pochi giorni, quanto basta per vedere le principali attrazioni dell’isola. Questa non si presta alla balneazione, perché le coste sono alte e rocciose, mentre il mare è di norma agitato. Insomma, la disponibilità di acqua dolce per i pochi abitanti e turisti è assicurata, anche per il clima semitropicale con piogge leggere ma praticamente quotidiane.
E’ interessante che l’approvvigionamento idrico di Roma sia costituito, sebbene in parte, dal lago vulcanico di Bracciano. Però il clima del Lazio non è di tipo subtropicale e la popolazione di Roma è di alcuni milioni di abitanti. In più il cambiamento climatico sta mettendo in crisi gran parte del paese. Insomma, in questo momento storico dal punto di vista idropotabile l’Isola di Pasqua è sostenibile, mentre Roma è insostenibile.
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Grazie del commento, davvero molto interessante, che rappresenta una perfetta appendice al post!
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“…Mi sono sempre chiesto come fu possibile per le élites dei diversi clan che regnavano sull’Isola di Pasqua non rendersi conto che il disboscamento totale e definitivo dell’isola avrebbe segnato il collasso ecologico e lo stesso destino di una popolazione priva di vie di fuga….”
Secondo Diamond questa domanda è ingannevole. E’ il concetto di “ultimo albero”, a volte proposto, a risultare fuorviante. Gli isolani hanno devastato le foreste disponibili per secoli, riducendole gradatamente a sterpaglie di arbusti. Quando questo mitico “ultimo albero” è stato abbattuto, ormai la cosa non aveva più alcuna importanza: la copertura forestale era svanita da tempo. Probabilmente i responsabili del colpo di grazia non avevano mai visto, nell’arco della propria vita, piante più alte di un cespuglio. Non potevano comprendere la natura del disastro. Gli esseri bramano una fine rapida e spettacolare; ma la loro comunità deperisce e scompare con estrema lentezza.
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