Giornalisticamente parlando, il pianto di un potente fa sempre notizia. Per ovvie ragioni si tende a credere che chi, ad esempio un uomo politico, abbia acquisito notorietà grazie al potere che esercita, sia abbastanza freddo e distaccato da saper controllare le proprie emozioni. Per la verità più di qualcuno sospetta che un politico non abbia emozioni tout court. L’incapacità di piangere è in qualche modo associata nell’immaginario collettivo all’alone di cinismo e allo spietato attaccamento al potere che si pensa debbano necessariamente accompagnare chiunque ambisca a raggiungere posizioni di vertice nella società.
Tom Lutz, nel suo saggio “Storia delle lacrime. Aspetti naturali e culturali del pianto”, evidenzia come, almeno fino agli anni ’70 del secolo scorso, un politico in lacrime non fosse ben visto dai media, nella convinzione che l’instabilità emotiva di un uomo sottoposto a pressioni non lo rendesse idoneo a ricoprire cariche di prestigio. Poi il vento è cambiato, e le lacrime hanno cominciato ad essere percepite come un sintomo di virtù umane e di sensibilità. Certo, ci sono circostanze e circostanze: il pianto di un leader politico durante i funerali di vittime del terrorismo, o dopo un evento tangibilmente traumatico come un terremoto o una strage, non meraviglia affatto e forse addirittura ci si scandalizzerebbe se non fosse registrato dalle telecamere. Per altri avvenimenti meno appariscenti, come quelli che segnano simbolicamente un passaggio epocale agli occhi dei protagonisti, le lacrime sono invece l’indice di una autentica passione politica, la passione che ad esempio animava molti leader di un certo spessore cresciuti nel secondo dopoguerra. Penso, fra i casi più noti, alla commozione di Helmut Kohl dopo la caduta del muro di Berlino, o a quella di Achille Occhetto nell’annunciare lo scioglimento del PCI.
Poi ci sono le donne, dolcemente complicate secondo la definizione della celebre canzone di Fiorella Mannoia, meravigliosamente ed autenticamente umane fin nel midollo, per le quali la lacrima facile è considerata una caratteristica in qualche modo inscritta nel cromosoma femminile. Seguendo abusati luoghi comuni, il pianto delle donne è visto dal cosiddetto sesso forte come tipica espressione di debolezza e fragilità, con una implicita connotazione negativa che è retaggio di un passato maschilista duro a morire. Accade invece che laddove sono le (poche) donne potenti a piangere, le cause scatenanti possono essere sorprendentemente diverse da quelle consuete che provocano commozione nei loro omologhi maschi. A mio parere ciò accade perché le donne riescono a tradurre efficacemente preoccupazioni frutto di analisi lucidamente fredde e razionali in stati interiori che toccano le corde più sensibili dell’anima.
Deve essere avvenuto qualcosa del genere a Christiana Figueres, fino a pochi mesi fa Segretario Esecutivo dell’UNFCCC (l’organismo delle Nazioni Unite che sovraintende ai negoziati sul contrasto ai cambiamenti climatici), una delle principali artefici dell’Accordo di Parigi del dicembre scorso, nel corso di un’intervista del giornalista e divulgatore scientifico Pere Estupinyà andata in onda all’interno di un bel documentario sul nuovo modello energetico trasmesso dalla TV pubblica spagnola (purtroppo la versione in italiano non è disponibile, ma andrebbe ugualmente visto e confrontato con certe trasmissioni di casa nostra). Al commento del giornalista, che sottolineava l’urgenza della transizione verso le fonti pulite di energia per evitare le conseguenze più gravi dei cambiamenti climatici, la Figueres risponde: “Sì, la rapidità è quello che mi preoccupa. Avverto qui un’impazienza man mano che passano i minuti. Se non attueremo un cambiamento radicale nei prossimi cinque anni, avremo un livello di sofferenza umana inaccettabile e che minaccia pericolosamente un mondo nel quale ci sarà sempre povertà. Questo è inaccettabile. Questo è uno scenario inaccettabile. E pensare che si possa continuare nel corso di questo secolo con i livelli di povertà che abbiamo avuto nel secolo scorso e che potrebbero peggiorare in questo secolo è inaccettabile”, dopodiché inaspettatamente si interrompe, guarda l’interlocutore, poi volta la testa lontano dalla telecamera guardando fisso nel vuoto, si volta di nuovo e asciugandosi una lacrima mormora a bassa voce “E’ così ingiusto… qui c’è un imperativo morale…”, ponendo fine all’intervista fra l’imbarazzo di Estupinyà e lo sconcerto dello spettatore.
Toccante, almeno per chi ha a cuore l’incombente tragedia del riscaldamento del clima, non so per gli altri. Credo ad ogni modo che l’episodio meriti una riflessione. Quale può essere stato il percorso mentale che ha generato la fugace lacrima della Figueres? Dopo aver seminato speranza per anni in lungo e in largo ha forse sviluppato un convincimento pessimista sulle prospettive del clima globale? Perché ha sostenuto che abbiamo solo cinque anni per mettere in atto il cambiamento radicale di cui c’è un così disperato bisogno? Naturalmente nessuno può dirlo se non la Figueres, ma a me pare significativo che un diplomatico di lungo corso come lei si sia spinta a definire il cambiamento radicale da attuare non come un’opzione politica, per quanto necessaria, ma piuttosto un imperativo morale. Così come fa riflettere che abbia associato i cambiamenti climatici non ai suoi impatti biofisici ma alla povertà e alla sofferenza che ne potranno derivare. D’altra parte, non stupisce che una donna intelligente e sensibile, che nel corso del suo incarico all’ONU si è trovata a lavorare in quell’impervio confine che separa i mondi opposti della scienza e della politica, possa sentirsi esausta e impotente di fronte all’inazione diffusa che impedisce di porre un argine a un problema così immenso.
Del resto, si sa, da che mondo è mondo le lacrime più copiose si versano di fronte alla morte, ma il cambiamento climatico, come ha detto lo scrittore indiano Amitav Ghosh, è come la morte, ed è per questo che nessuno ne vuol parlare a dispetto dell’importanza che viene riconosciuta all’argomento. La lacrima sul viso della Figueres appare dunque come lo specchio delle lacrime che saranno versate da donne e uomini in carne ed ossa alle prese con le drammatiche conseguenze della deliberata quanto irresponsabile scelta di continuare a correre ad occhi chiusi verso l’ignoto che ci attende.
La sensazione è quella di una maschera che cade. Un politico non può dire che siamo fregati. Deve spingere a credere che ci sia una speranza, o questa speranza, in modo autoavverante, sparisce.
E quindi Christiana Figueres ci racconta che possiamo farcela, che dobbiamo fare un grosso sforzo, ma abbiamo ancora 5 anni, per cambiare strada.
Ma dentro di sé sa benissimo che non è vero. Molto probabilmente non succederà. E sa quali siano le conseguenze di questo. E alla fine non riesce a tenere questo dentro di sé.
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Sono anni che un cambiamento è necessario ma la verità è che la maggior parte della popolazione non è disposta a variare le proprie abitudini di vita. Si diventa vegani ma quando si parla di usare di più i mezzi pubblici, differenziare i rifiuti con attenzione, preferire mezzi di movimento non inquinanti, limitare gli sprechi di acqua, cercare di ottimizzare i consumi energetici tutto cambia. Ci sono famiglie che hanno anche 3 auto che usano quotidianamente per andare a lavoro a 15/20 minuti da casa, aree che potrebbero raggiungere tranquillamente in modo diverso semplicemente con un po’ di organizzazione. Siamo abituati alle comodità e a dare troppo per scontato, come l’acqua pulita che esce a nostra discrezione dal lavandino, e sprechiamo risorse preziose inutilmente senza neppure rendercene conto. Per assurdo le industrie, costrette da normative più o meno rigide a seconda degli stati, sono molto più eco-friendly della maggior parte dei cittadini.
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Il problema che sta alla base di tutti i problemi si chiama “malversazione”, che fa uso dell’informazione secondo obbiettivi individualistici secondari (potere economico e quindi politico), perversamente considerati primari rispetto a quelli reali: la vita del pianeta che ci ospita.
La forza e la risoluzione degli onesti è tale da consentire comunque la penetrazione delle informazioni, ma la gestione dei media e degli strumenti di diffusione delle stesse è prevalentemente orientata da chi, quel suddetto potere, se lo garantisce con tutti i mezzi possibili.
A fronte del clamore costruito attorno a notizie di secondario interesse (o affatto nullo), o debitamente costruite o modellate per suscitare ancora più clamore, dibattiti, e articoli invadenti, resta poco spazio per dialogare su altro…
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Grazie per il contributo che lei offre e altri come lei, e grazie per il rilancio che ne viene fatto nel web.
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