Chiunque in questi giorni drammatici abbia dato un’occhiata alla mappa sismica dell’Italia, con quella minacciosa striscia violacea che corre lungo la dorsale appenninica come un brivido lungo la schiena, si sarà chiesto come è stato possibile rimanere collettivamente per decenni con le braccia conserte ad aspettare il prossimo terremoto e contare le sue vittime anziché rimboccarsi le maniche e riqualificare il patrimonio edilizio delle aree a rischio per dotarlo delle caratteristiche antisismiche necessarie ad evitare il ripetersi di simili tragedie.
Perché nel Belpaese non si riesce mai a tradurre in fatti concreti la parola prevenzione, di cui pure ci riempiamo la bocca dopo ogni evento emergenziale? Colpa della malapolitica e del malaffare dilagante, certo, ma sarebbe ingeneroso gettare la croce unicamente addosso all’amministratore locale di turno, ai governi nazionali o agli imprenditori edili. Il fatto è che mentre tutti a parole concordano con il banale vecchio saggio mutuato dalla medicina ‘prevenire è meglio che curare’, nel nostro agire quotidiano si tende quasi invariabilmente a comportarci in maniera opposta, guardando all’hic et nunc invece di pensare ad assicurarci dai rischi che il futuro ci riserva anche in base ad un semplice calcolo delle probabilità.
Senza dubbio i lutti e le macerie provocate dall’inefficacia e dalla limitata implementazione delle prescrizioni antisismiche, assieme ai danni causati dal dissesto idrogeologico, sono fra gli esempi più emblematici delle conseguenze derivanti dalla mancanza di una vera cultura della prevenzione nel nostro paese, ma a ben vedere il problema va molto al di là dei terremoti e delle alluvioni: il vizio di fondo degli italiani a mio parere è la congenita mancanza di una capacità di pianificazione del proprio futuro. Di fronte alle molteplici minacce, globali e locali, che incombono sulle nostre teste, ci si ostina perlopiù a girare la testa dall’altra parte e a turarsi le orecchie per non sentire, oppure a scrollare le spalle con fatalistica rassegnazione. E ciò che è peggio è che più le condizioni socioeconomiche si deteriorano e la precarietà, a tutti i livelli, si insinua nelle nostre vite, più si acuisce la tendenza a guardare all’impatto immediato delle nostre azioni ottundendo ogni pensiero che vada al di là del dopodomani. Non oso pensare a ciò a cui potremo assistere in uno scenario di profonda crisi sistemica in cui la corsa all’accaparramento delle scarse risorse disponibili annienterà ogni residua speranza di un futuro dignitoso alle future generazioni.
Ci sono evidentemente delle chiare ragioni antropologiche ed evoluzionistiche alla base dell’ostinazione con la quale una buona parte del genere umano si rifiuta di vedere le conseguenze a lungo termine delle proprie azioni ed inazioni. La quotidiana lotta per la sopravvivenza dei nostri antenati cacciatori-raccoglitori ha evidentemente impresso nel codice genetico di Homo sapiens una sorta di incapacità a priori di ragionare secondo schemi in grado di prevenire gli impatti nefasti futuri dell’agire quotidiano. Una tale scarsa predisposizione alla prevenzione e alla programmazione a lungo termine non si è però prodotta allo stesso modo in tutte le aree del mondo. È verosimile che le genti del nord Europa, di cui tutti noi invidiamo la lungimiranza, le capacità progettuali e la visione sistemica, abbiano potuto adattarsi efficacemente al clima ostile e ad una natura meno generosa rispetto alle zone temperate mediterranee proprio perché hanno sviluppato la capacità di sopravvivere ai lunghi rigidi inverni stoccando il cibo e le risorse che non era possibile procurarsi quotidianamente. Ciò sembra aver prodotto nei secoli in questi popoli un’attitudine più spiccata alla prevenzione delle avversità di quanto non siano stati in grado di fare i popoli italici. Non deve stupire allora, né tanto meno farci sorridere, che il governo tedesco abbia di recente invitato i cittadini a dotarsi di scorte alimentari per almeno dieci giorni come misura precauzionale di protezione civile in vista di eventuali emergenze terroristiche o di altra natura. A dirla tutta, a me un tale invito non suona affatto inutilmente allarmistico ma semplicemente dettato da saggia prudenza.
Tuttavia, c’è dell’altro che fa suonare poco attraente il concetto di prevenzione, benché nessuno sarà disposto ad ammetterlo: la prevenzione, al contrario delle emergenze procurate dalla sua assenza, non fa notizia, è noiosa, è silenziosa, non buca gli schermi televisivi, non scatena le paranoie dei complottisti, non infiamma i social network, non fa tracimare le viscerali pulsioni anti-immigrati serbate dalla maggioranza non più silenziosa di questo paese. E poi, come ben sappiamo, sull’emergenza si lucra, ci si aggiudica appalti, si costruiscono nuove professionalità, si imbastiscono talk show e servizi televisivi ad alto tasso di commozione e sicuro ritorno pubblicitario.
Ma torniamo al terremoto: a prescindere dall’importanza che si voleva riservare alla prevenzione, le famiglie povere dell’Appennino rurale fino a sessant’anni fa non disponevano certo delle risorse necessarie a tutelarsi dai rischi che il futuro riservava loro, e per la grande maggioranza di esse non c’erano alternative praticabili al campare alla giornata. Per quelle popolazioni, da sempre in balia delle incontrollabili forze della natura, un violento sisma era una delle tante sciagure che poteva capitare, e probabilmente neanche la peggiore. Quando in seguito le altre più comuni calamità come fame, carestie, malattie epidemiche, guerre, sono state scongiurate dalla ricchezza che si andava diffondendo grazie all’uso massiccio dell’energia fossile, si è stati indotti a credere che il millenario dominio della natura sull’uomo si fosse ribaltato, facendo dimenticare quanto profondo e indissolubile è il legame fra la civilizzazione umana e l’ambiente che la sostiene. E dunque se oggi siamo costretti ad ammettere che le ambizioni di progresso degli uomini non possono avere la meglio sulle leggi naturali, dovremmo sforzarci di vedere i terremoti come una delle manifestazioni del pianeta vivente che si modella trasformandosi incessantemente anziché come una sorta di improvviso e traumatico risveglio della natura matrigna che di tanto in tanto si ribella rifiutandosi di mostrarsi accondiscendente alla domesticazione umana. Come per altri fenomeni naturali e per le minacce globali che minacciano le nostre esistenze, prima fra tutte il riscaldamento del pianeta, la sfida è quella di saperli comprendere, di mitigarli e di prevenirne gli impatti, non di dominarli con l’arroganza.
Insomma, facciamocene una ragione, non saremo mai in grado di impedire alla terra di tremare, così come non riusciremo a soggiogare la natura assoggettandola al folle delirio di onnipotenza degli uomini senza patirne infine le conseguenze. Potremo solo, e non è poco, evitare di farci troppo del male imparando a convivere in armonia con la nostra madre Terra.